Sono in corso varie iniziative dirette a potenziare autonomia finanziaria e autonomia tributaria delle regioni. Con la presentazione della proposta governativa che introduce l’IREP (Imposta regionale sulla produzione), tributo inizialmente a gestione centrale ma con la possibilità lasciata alle regioni di variarne l’aliquota entro un 20 per cento, ci si troverà di fronte una capacità contributiva profondamente differenziata da zona a zona. I necessari meccanismi perequativi che l’accompagneranno potranno non assicurare le risorse per lo svolgimento delle funzioni normali in talune regioni.
Con la cessazione dell'”intervento straordinario” per il Mezzogiorno si è registrata una forte caduta della spesa pubblica statale nell’economia meridionale. La perdurante arretratezza di questa, testimoniata anche dal riaprirsi della forbice dei redditi pro capite tra le due aree del Paese, non può far contare, oltre certi limiti, su una disponibilità di base e capacità contributiva su cui la sempre più estesa autonomia tributaria delle regioni possa esercitare significative operazioni di prelievo. Essendo scarse le entrate autonome su cui possono contare, per regioni ed enti locali del Mezzogiorno è quasi impossibile realizzare una serie di progetti, il cui finanziamento è disciplinato in termini di concorso di risorse locali, nazionali e comunitarie.
Tanto più allora appare necessario verificare l’efficacia di quelle disposizioni che assicurano entrate “proprie” alle regioni meridionali, in relazione all’impiego ed allo sfruttamento di risorse primarie in esse ubicate e che, là prelevate, concorrono a soddisfare approvvigionamenti di servizi di preminente interesse nazionale. E’ il caso appunto delle risorse energetiche derivanti da giacimenti di idrocarburi. Allorché al loro sfruttamento procedeva l’ENI in regime di impresa pubblica e con il vincolo di localizzazione sugli investimenti di trasformazione (sistema della riserva eccetera) i benefìci potevano essere accettati sotto la forma e contropartita delle unità di stabilimento che localmente venivano installate, anche solo per una prima e parziale trasformazione industriale.
Con l’affermarsi dei processi di privatizzazione sono venute meno le condizioni per negoziazioni aventi ad oggetto decisioni di questo tipo.
Anzi, proprio nelle regioni come Sicilia, Puglia, Basilicata, dal cui sottosuolo l’ENI preleva significativamente quantità di risorse minerarie, lo stesso gruppo sta attuando una strategia di quasi completo disimpegno in campo industriale (chimica soprattutto).
Normative diverse nel tempo, prima l’articolo 27 del testo unico sul Mezzogiorno con validità fino al 1993, poi una disposizione della legge 28 dicembre 1995, n. 549, a decorrere dal 1996, hanno fissato la partecipazione, per un terzo, delle regioni meridionali al godimento delle royalties (aliquote di prodotto estratto, ovvero il controvalore monetario) dovute allo Stato dai titolari di concessioni aventi ad oggetto le coltivazioni di giacimenti di idrocarburi, limitatamente al gettito delle concessioni ubicate nella specifica regione.
Al momento dell’applicazione amministrativa le predette disposizioni non appaiono conseguire i risultati attesi, fondamentalmente per il sovrapporsi ad esse delle procedure per l’esonero dal pagamento delle royalties riconosciuto alle imprese titolari, ove queste dimostrino aver intrapreso investimenti di ricerca.
La facoltà data alle imprese di prolungare su cinque/sei anni gli stessi investimenti avvia un procedimento di accertamento a lunga decorrenza che impedisce la determinazione definitiva delle royalties dovute per una certa annualità allo Stato e di conseguenza alle regioni interessate.
Il Ministero delle finanze continua a portare in previsione, anche nell’entrata del bilancio 1997, al capitolo 2604, il ridottissimo importo di 4 miliardi per competenza e per cassa. Per bene che vada, se nell’anno 1997 non si rinnova la facoltà dell’esonero, il capitolo 2604 potrà recuperare – nella previsione del 1998 – il suo gettito pieno, che, per tutte le coltivazioni di terraferma e di mare, ed aliquote invariate, dovrebbe essere non inferiore ai 150 miliardi.
Sono tutte ipotesi, non sufficientemente solide da supportare ordinate programmazioni di entrata e di impiego di questi proventi.
Di qui l’opportunità di una nuova disciplina, come qui si propone, della materia delle royalties derivanti da coltivazioni di idrocarburi in terraferma, che sono quelle ove si concentra l’interesse delle regioni e dove vanno definiti i termini della loro partecipazione.