di Rosita Stella Brienza
L’intervista alla Senatrice Valeria Fedeli è la testimonianza diretta di una donna straordinaria che presentiamo oggi, 21 gennaio 2021, all’interno di un’edizione speciale dedicata ai cento anni del Pci. Come nei migliori racconti vissuti in prima persona, Valeria Fedeli si muove tra cronaca e storia, volti e colori suscitando emozioni e alternando alla riflessione profonda, la forza dei valori e delle idee, la concretezza e l’annuncio di un cambiamento che parte da lontano e che continua a pungolarci tutti i giorni, mostrando nuovi percorsi da compiere lungo il cammino della vita politica e sociale.
Il 21 gennaio 2021 cade l’anniversario della nascita del Partito Comunista d’Italia, poi divenuto Partito Comunista Italiano. Quali sono stati i meriti e i demeriti del PCI nella storia dell’Italia Repubblicana?
Il PCI è stata una forza politica decisiva per la Resistenza e la Liberazione e poi nel porre le basi democratiche della Repubblica.
Tra la lotta al fascismo, la partecipazione alla Costituente e poi la funzione politica e parlamentare – per quanto relegata all’obbligata opposizione dagli equilibri geopolitici mondiali – il PCI è sempre stato fortemente ancorato ai valori e alle regole democratiche. Un’attitudine naturale al governo, a prescindere dai ruoli occupati, fondata sul senso di responsabilità – verso il Paese e verso le classi sociali rappresentate – sulla serietà delle proposte, sulle idee, sulle soluzioni più utili per lavoratrici e lavoratori, per le persone più in difficoltà.
Anche se all’opposizione, i leader comunisti parlavano e insegnavano l’importanza di parlare e comportarsi sempre come se si fosse al governo (l’opposto che purtroppo spesso si è visto negli ultimi anni). Questo credo sia un merito – oltre che un insegnamento prezioso per me e per tante e tanti che, come me, sono cresciute accanto ad alcuni di quei leader e di quelle leader – che va riconosciuto come specifica peculiarità dei comunisti italiani e come importante contributo alla tenuta democratica dell’Italia, nella vita parlamentare ordinaria come nei diversi momenti di crisi profonda che abbiamo vissuto.
Merito poi del PCI l’aver per anni fatto crescere classi dirigenti preparate, votate al servizio nei confronti degli altri, mai egoiste, attente al futuro di tutte e tutti.
Nell’esperienza del PCI ci sono stati poi anche tutti i limiti – emersi in ritardo e non sempre superati con efficacia – di una forza ideologica, di un partito rigido e chiuso, che ha faticato nello stare al passo con i cambiamenti sociali e culturali del Paese, non sapendo interpretare e rappresentare le dinamiche mobili e flessibili di una società sempre più complessa e liquida.
Cosa rappresenta il 1968 per lei e che cosa ha avviato in Italia?
Nel 1968 ero da poco arrivata a Milano, lavoravo come maestra nelle scuole comunali dell’infanzia e studiavo per assistente sociale. Il mio primo impegno politico fu quindi segnato fortemente dal movimento studentesco e da quello femminista, che animavano il ’68 e partecipavano alla spinta a un cambiamento radicale della società. Proprio in quella fase ho poi incrociato il movimento operaio, un incontro che attraverso l’impegno con Avanguardia Operaia mi ha portato poi in Cgil.
Erano anni di grande fermento, alla fine di un decennio che aveva già cambiato profondamente la società italiana, senza che le istituzioni e le forze politiche riuscissero a interpretare e rappresentare le nuove istanze sociali, economiche, di futuro.
Il ’68 è stato capace di avviare quel cambiamento culturale e sociale che negli anni successivi si è manifestato in tutta la sua portata.
Esattamente che cosa è cambiato grazie al ‘68 e come era interpretato il cambiamento?
Sono cambiati gli equilibri della società, con donne e giovani che hanno preteso più spazi, con nuovi vissuti della famiglia, con una rivoluzione del costume, del linguaggio e dei comportamenti.
È iniziata la stagione delle lotte per i diritti, che ha visto tante di noi impegnate nei movimenti femministi e femminili, producendo trasformazioni del vissuto delle donne e degli uomini e innovazioni normative – divorzio, maternità libera e consapevole, autodeterminazione delle donne, battaglie per l’uguaglianza – che ancora oggi sono fondamenti del nostro stato di diritto e di libertà.
Con lotte e parole radicali allora interpretavamo il cambiamento come una battaglia perché la società riconoscesse a ciascuna e ciascuno pari dignità, diritti e responsabilità, per un mondo senza discriminazioni di censo, di età, di sesso, di idee.
Secondo lei che cosa invece non si è fatto nel ‘68?
Se con consapevolezza e orgoglio chi ha vissuto il ’68 sa di aver contribuito al cambiamento di società e cultura, ha anche capito che quello che è mancato è stata la capacità di cambiare la politica e le istituzioni.
È mancata, anche da parte dei partiti, soprattutto del PCI, la capacità di comprendere per tempo il movimento, di aprirsi al dialogo e alla contaminazione, di saper essere contenitore e poi diffusione nella società del cambiamento. Non essere riusciti a vincere paure e resistenze, non aver saputo costruire posizioni capaci di offrire a tutte e tutti coloro che avevano vissuto l’esperienza del ’68 – e poi dei movimenti degli anni seguenti – una casa politica dove continuare le proprie battaglie, ha certamente contribuito a rendere più aspro il conflitto sociale e politico degli anni successivi e meno forti le innovazioni istituzionali e della società.
Il culto della persona nel PCI termina con Enrico Berlinguer. Come si pone rispetto a un personaggio che ha determinato la storia della politica italiana, portando il Paese verso il compromesso storico sancito con la famosa stretta di mano tra il segretario comunista e il presidente democristiano, Aldo Moro, avvenuta il 28 giugno del 1977?
Berlinguer è stata una figura di profilo altissimo, segretario di un partito-comunità, capace di non lasciare mai dubbi sulla completa aderenza tra le sue idee e la sua vita. In questo senso non credo che il suo carisma si possa ridurre al culto della personalità, per quanto certamente il PCI fosse un partito fortemente ideologico, quasi una chiesa, cosa che ha sempre determinato una particolare e intensa funzione del ruolo di segretario.
Berlinguer ha incarnato un’idea di politica rigorosa, austera e onesta, a suo modo dirompente. Era un politico autentico, trasparente, coerente e autorevole, capace di mettere sempre il futuro dell’Italia e della nostra comunità al di sopra di ogni altro interesse privato o di parte, anche di partito. Un vero leader, che aveva il naturale pregio di esprimere anche attraverso la qualità della sua leadership quei valori etici di sobrietà, determinazione, aspirazione all’uguaglianza attraverso i quali ha saputo rappresentare la comunità delle comuniste e dei comunisti italiani in momenti così difficili della nostra storia.
La stretta di mano con Moro – altra figura da cui abbiamo tuttora molto da imparare, eccelso statista, uomo di valori democratici, di inestimabili serietà e apertura – che sancì il compromesso storico si inserisce in questo contesto: fu la stretta di mano tra due leader che vivevano il proprio ruolo come teso sempre a garantire la tenuta democratica del paese, e disposti quindi a trovare punti comuni per costruire un’esperienza di governo allargata e capace di imprimere una nuova spinta riformista al Paese.
Qual è il contributo che oggi Berlinguer ci consegna per superare quella che lei considera la più grande sfida del cambiamento?
Ritengo importantissimo il contributo intellettuale e politico di Berlinguer rispetto a quella che considero, ancora oggi, la sfida più grande per il cambiamento che vogliamo realizzare: l’investimento per l’equilibrio di genere, un equilibrio che riconosce le differenze ed elimina ogni discriminazione. Berlinguer considerava l’atteggiamento discriminatorio nei confronti delle donne un problema profondo, ancorato ad un contesto culturale e ad un retaggio maschilista, da superare.
L’etica pubblica, la critica a un modello di società individualista e la ricerca di un diverso modello di crescita, la parità di genere sono valori che ancora oggi perseguiamo, e cui ancora non abbiamo saputo dare risposte sempre efficaci.
Quali sono le ragioni per cui i giovani amano così tanto Berlinguer?
E’ vero, Berlinguer è tanto amato ancora oggi, anche dai più giovani: è il simbolo di una sinistra che unisce valori inderogabili, lettura della società, aspirazioni al cambiamento. Una leadership pacata, lungimirante, coraggiosa, capace di provocare una scia di ammirazione e fascino, di stima e nostalgia.
Credo che se trovassimo oggi una leadership con queste qualità tornerebbe anche il culto della personalità.
La formula “Unità nella diversità” a che cosa si associa oggi? Forse a un’Europa che va rafforzata superando i nazionalismi per diventare un modello unico di Unione di Stati seppur diversi tra loro?
“Unità nella diversità” è una formula che trovo bellissima, capace di esprimere non solo il senso di tutto il percorso di integrazione europeo, ma un punto di vista politico – che io ho sempre riconosciuto nel riformismo – che guarda al superamento di ciò che divide e ricerca punti di comunanza e condivisione.
Per tanti anni ho usato uno slogan che dice “il futuro è di tutti ma è uno solo”, convinta che occorre fare di tutto per condividerne le prospettive. Sono stata e sono convinta sostenitrice dell’unità sindacale, come poi del dialogo costruttivo tra parti sociali e tra soggetti e forze istituzionali e politiche.
E ho più volte sottolineato come la prospettiva più qualificante e concreta per dare forza all’Europa sia assumere pienamente la prospettiva degli Stati uniti d’Europa.
Che cosa rappresenta l’Europa per l’Italia?
Sono convinta che in un mondo che cambia costantemente e velocemente, in cui la dimensione globale pervade le vite di ogni giorno, le tante sfide che l’Italia ha di fronte non possono essere vinte fuori dal contesto europeo. L’Europa è ancoraggio a valori, a ferite consumate e superate insieme, a esperienze sempre più aperte e senza confini, come quelle della generazione Erasmus. E l’impatto dell’Europa sulla vita di tutti i giorni di cittadine e cittadini è evidente, ancora più oggi dopo le scelte storiche del Next generation UE.
L’Europa ci serve per continuare a difendere e allargare i diritti di tutte e tutti, per crescere, per creare sviluppo sostenibile e lavoro di qualità, investendo su istruzione, conoscenza e ricerca, ci serve per affrontare in modo serio i fenomeni migratori, per contenerli senza perdere umanità. L’Europa ci serve perché l’unico cambiamento davvero possibile è quello fatto insieme, donne e uomini uniti da un comune destino.
La storia del PCI è densa di europeismo. Cosa rimane oggi di quell’approccio caratterizzato dalla grande forza e dai grandi valori di Altiero Spinelli?
Dall’eurocomunismo di Berlinguer alle battaglie di tutta la vita del Presidente emerito Napolitano, fino alla figura – per quanto critica nei confronti del Partito – di Altero Spinelli, la storia del PCI è densa di europeismo, un europeismo che ha contribuito a permettere al nostro Paese di essere tra i fondatori della Comunità e tra i protagonisti delle sfide dell’Unione, un europeismo che si ritrova anche tra i valori delle forze che hanno proseguito quella storia dopo la fine del PCI.
Anche quando, come negli ultimi anni, abbiamo criticato l’approccio solo rigorista e burocratico dell’Europa, lo abbiamo fatto perché vogliamo un’Europa più forte, capace di rispondere ancora agli obiettivi con cui l’Unione è nata, per riuscire a raccogliere – come proprio Napolitano ha ricordato qualche anno fa – “quell’esempio di profetismo, utopismo e realismo che ha caratterizzato la vita e l’impegno di Spinelli” le cui battaglie “avevano una loro sostanza, un loro rigore, una loro potenzialità anche costruttiva”, capace di incidere sulla vita di un intero continente grazie a valori decisivi ancora oggi.
Ci racconta la storia di un personaggio femminile comunista a cui si sente particolarmente vicina e il motivo per cui lo è?
Di personalità comuniste che per me sono state particolarmente importanti e che ritengo possano essere ancora un esempio ce ne sono diverse. Certamente Nilde Iotti, una delle madri della nostra Repubblica, che con il suo impegno energico, la sua visione, il suo spirito sempre aperto al dialogo e alla condivisione, ebbe il compito arduo e fondamentale, nella sua lunga carriera politica, di sradicare pregiudizi e chiusure nei confronti delle donne per valorizzare tutte quelle energie e quelle formidabili risorse femminili troppe volte accantonate e non mobilitate né nel lavoro né nella vita pubblica.
E se dovesse indicare un maestro di vita, per lei chi sarebbe?
Luciano Lama, per me è stato un esempio e un maestro, prima come segretario della Cgil in cui iniziavo il mio impegno politico, poi da Senatore. Una di quelle figure il cui pensiero e la cui azione restano e resteranno utili alla democrazia, al corretto ed equo esercizio della cittadinanza, a ogni prospettiva di crescita sana della comunità.
Se dovesse soffermarsi su una figura come fonte di valore da indicare come guida in questi tempi di crisi, chi sarebbe?
Voglio soffermarmi, in questa ricerca di figure che siano d’esempio anche oggi che fatichiamo a far emergere una classe dirigente capace, autorevole e visionaria, su una figura che non ho avuto occasione di frequentare direttamente, ma con la quale ho sempre sentito un legame particolare, un’affinità politica e di vita: Teresa Noce.
Tutta la vita di Teresa Noce è segnata dall’impegno politico, prima nel partito socialista e poi nel PCI, che contribuì a fondare, poi nel sindacato con Di Vittorio, passando attraverso l’antifascismo e la resistenza, la clandestinità in Francia, la partecipazione alla guerra civile spagnola, la prigionia nei campi di concentramento e poi la Costituente e l’impegno in Parlamento, sempre a sostegno delle donne e delle lavoratrici.
Considero tutto di lei: da compagna di un dirigente comunista del peso storico di Luigi Longo e da madre, con tutte le difficoltà della resistenza e della lotta partigiana dovendo prendersi cura di figli ancora piccoli.
Teresa Noce, insieme a tante donne della sua generazione, ci ha insegnato a non avere paura. A non aver paura dell’impegno politico, della condivisione, di confrontarsi con gli uomini, di condurre le battaglie che si ritengono giuste, di puntare al risultato pieno.
A lei si deve la legge in difesa della maternità, approvata nel ‘50, che garantiva il diritto al riposo per tutte le lavoratrici, obbligatorio e pagato al 100 per cento, e l’istituzione dei nidi d’infanzia e delle sale per l’allattamento nei luoghi di lavoro. Si occupò poi della riduzione dell’orario di lavoro e delle esigenze delle lavoratrici a domicilio. Fu tra le prime e più convinte a chiedere la parità salariale.
E prima ancora, da Madre Costituente, ebbe un ruolo decisivo su come la Carta affronta l’uguaglianza sostanziale, con riferimento in particolare all’Art. 3, e su quella indicazione “senza distinzioni di sesso” inserita al primo posto tra gli ostacoli da rimuovere.
Il suo essere “rivoluzionaria professionale” non poteva non entusiasmare chi voleva cambiare le cose, perché conferiva a lei – e un po’ a ciascuna di noi – la forza e il coraggio di battaglie politiche condotte spesso in forte polemica iniziale con prestigiosi dirigenti, e vinte perché sostenute dalle lavoratrici, con l’intreccio e l’impegno comune dalle sindacaliste e dalle parlamentari.
Temi e posizioni di enorme attualità ancora oggi, che ben lasciano comprendere quanto Teresa Noce sia stata una dirigente sindacale e politica innovatrice, pragmatica, carismatica. Un esempio di quanto la forza, l’energia, la resilienza delle donne siano decisive per ogni cambiamento.
Lei è una donna attenta alle dinamiche che determinano le condizioni di parità tra uomo e donna e si adopera affinché le donne siano garantite nei loro diritti. Rosa Luxemburg esprimeva coraggio e altruismo durante le sue battaglie, mettendosi anche contro l’ideologia leninista che, nella sua organizzazione si affidava al proletariato rivoluzionario, escludendo il resto delle persone. Quali sono i valori che incoraggerebbero oggi Rosa Luxemburg?
Rosa Luxemburg, come tante altre donne con lei e dopo di lei, dovette combattere per sfuggire e liberarsi da quel punto di vista maschilista e patriarcale che faceva di tutto per tenere sotto controllo, compresso e subordinato, il pensiero femminile.
Funzionava così nella società di fine ‘800 e inizio ‘900, una società che aveva conosciuto grandi cambiamenti, ma che non aveva – come tante volte accadrà nei decenni successivi – saputo cogliere il valore delle energie femminili.
Il sentimentalismo e il lato romantico della Luxemburg erano considerati segni di debolezza. Questo atteggiamento apparteneva soltanto al contesto sociale conservatore?
Ma il contesto sociale conservatore non basta, perché anche tra i suoi compagni di partito e di lotta i tratti più chiaramente femminili della personalità e dell’impegno di Rosa venivano sottovalutati se non scherniti. Era considerata – come ben ricorda Maria Rosa Cutrufelli nel saggio a lei dedicato pubblicato lo scorso anno su «Alternative per il socialismo» – sentimentale e romantica, dando a questi attributi una lettura negativa, come espressioni di debolezza, nella convinzione che il romanticismo fosse un peccato, un vizio, in particolar modo femminile, non compatibile con la rivoluzione.
Qual è il valore di Rosa Luxemburg che lei considera più importante e da prendere in considerazione per essere poi considerato un modello della società attuale?
Quello che oggi mi pare il valore che più possiamo riprendere e considerare attuale è proprio quel suo sguardo aperto e interessato sul mondo, visto come luogo di condivisione, regolato da relazioni strette ed essenziali, dove trovare modi per conciliare il benessere collettivo con la libertà individuale.
Rosa amava la natura e decise di studiarla, comportandosi non solo da femminista ante litteram, ma da anticipatrice di quell’idea di sostenibilità oggi ampiamente diffusa che vede il destino dell’ambiente e della natura indissolubilmente legato alle scelte e prospettive di crescita, ai diritti, all’uguaglianza. E che vede nella cura, nell’etica della cura, nella condivisione della cura un punto di vista centrale per leggere e governare positivamente i cambiamenti che oggi affrontiamo. Con uno spirito costruttivo, di dialogo, di attenzione sempre al contesto in cui si fa politica e si vive, alle persone in carne e ossa da coinvolgere e per le quali battersi.
L’autonomia di pensiero, l’attenzione al mondo e al pianeta come dimensione fortemente politica, le battaglie per una emancipazione reale e concreta rendono Rosa Luxemburg una figura ancora attuale, che certamente anche oggi è utile studiare e prendere a modello.
Alla fine degli anni Novanta, prima di arrivare allo scioglimento del PCI, abbiamo assistito allo sgretolamento dei significati e dei simboli del partito.
Lei pensa che i partiti abbiano bisogno di una nuova definizione di significati e simboli?
I simboli, anche quelli grafici, sono certamente fondamentali per facilitare partecipazione a una comunità e senso di condivisione di valori e pratiche. E i simboli politici – i segni visivi che garantivano identità collettiva – hanno pienamente svolto questa funzione, almeno fino alla prima repubblica, quando l’ancoraggio sociale dei partiti di massa portava a un forte senso di appartenenza.
Era un tempo in cui l’identità politica e quella di vita erano totalmente sovrapposte, e in cui i simboli avevano un portato denso, saturo di significati e vissuti. Quello che forze come il PCI hanno faticato a comprendere è il passaggio storico – per fare un esempio significativo – dalla fase in cui tutte e tutti coloro che lavoravano in fabbrica erano operai, e questo determinava identità individuali e collettive, a quella in cui ci si limitava a fare l’operaia o l’operaio, con le identità definite sempre più da altro: da immaginari, consumi, abitudini e stili di comportamento.
Un simbolo forte come la falce e il martello – rigido come tutta l’ideologia che esprimeva – non ha saputo allora trovare le adeguate evoluzioni per rappresentare un mondo in cambiamento, non ha saputo rinnovarsi per continuare a sintetizzare le ragioni di appartenenza, ragioni che si stavano evolvendo e modificando.
L’esempio del quadratino rosso che da 35 anni è il simbolo della Cgil – e alla cui iniziale sperimentazione in Funzione Pubblica ho avuto la fortuna di lavorare – è significativo proprio perché la scelta cadde su un segno da un lato capace di evocare i valori della comunità sindacale, con il rilancio del colore rosso assoluto (che quasi anticipa la moda dei colori pantone), dall’altro di non trovarsi schiacciato su iconografie del passato, su simboli – come la falce e il martello – troppo legati a specifiche fasi storiche e politiche e quindi destinate a vedere esaurire la propria forza.
Oggi viviamo un’estrema debolezza di simboli politici, che segue la crisi che i partiti e la politica tutta ha vissuto e vive. Abbiamo assistito, da un lato, a un progressivo indebolirsi delle identità, e di conseguenza a uno svaporarsi dei simboli, dall’altro alle leadership che si sono sostituite ai simboli come strumenti capaci di fare sintesi e di aggregare, chiaramente con tutta la debolezza del costruire su fondamenti in fondo fragili come una singola persona. La sfida è tornare a far vivere la politica pienamente, come strumento partecipato da tutte e tutti per migliorare la comunità, per dare un senso reale alla dimensione del “noi” che dobbiamo sapere riscoprire, anche grazie a nuovi simboli, capaci di costruire identità e significati aderenti al tempo presente e al futuro.