Il convitto nazionale “Vittorio Emanuele II” di Roma è una eccellenza nazionale ed europea, un convitto con scuole statali interne: primaria, secondaria di I grado, liceo classico, liceo scientifico, liceo classico europeo, liceo scientifico internazionale con opzione lingua cinese, liceo coreutico e liceo scientifico sportivo, in collaborazione con il CONI.
Al vertice del Convitto da alcuni anni opera il Rettore Paolo Reale, un grande educatore, un manager di primo livello e una personalità brillante, stimata e apprezzata in Italia e all’estero.
Il Rettore ci ha concesso questa chiacchierata e noi ne approfittiamo volentieri per porre alcune domande.
La prima: come ha inciso e come sta incidendo il Covid nell’attività del convitto, come vi siete organizzati, cosa suggerisce per garantire anche in questo tempo difficile istruzione e formazione di qualità?
Il Covid sta incidendo ma non stravolgendo l’identità, la fisionomia e la fisiologia del Convitto. La stessa Didattica digitale Integrata, infatti, di cui oggi inevitabilmente parlano tutti stimando percentuali e quote orario, viene implementata non come qualcosa di avulso ma nel prosieguo della proficua esperienza della DAD dello scorso anno.
Niente si improvvisa: l’avvio delle lezioni è stato costantemente e incessantemente preparato sotto i diversi profili della sicurezza con la stesura di un protocollo anti-contagio, sulla base del quale sono state predisposte il layout delle aule, la logistica, l’organizzazione didattica e amministrativa, la cura e la relazione educativa di un anno che si era consapevoli, avrebbe avuto i caratteri e i toni della straordinarietà. Ciò, tuttavia, senza che l’istruzione e la formazione offerte avessero un ruolo ancillare. Tutt’altro. Il fare scuola (forse più che l’essere a scuola) è una garanzia per tutti: per gli alunni e gli studenti, per le famiglie, per il personale della scuola.
Professor Reale quali sono le perle distintive che fanno del Convitto nazionale una esperienza leader in Europa?
Non spetta a me dire se al Convitto ci siano delle perle e se esso rappresenti, anche se posso ben immaginarlo, un’esperienza leader in Europa: non mi appartiene celebrare ciò che funziona ma concentrarmi sugli aspetti che hanno ancora margini di miglioramento. Ciò detto, volendo trovare una sintesi, la specificità del Convitto probabilmente risiede nella particolare e, forse inedita, convergenza di alcune solide e identitarie caratteristiche della scuola italiana, basata sull’epistemologia delle discipline, e l’apertura all’innovazione, didattica in primis, che si misura con le esperienze e le relazioni internazionali, di cui da lustri è connotata l’offerta formativa. Lo sguardo all’Europa esiste da almeno i primi anni Novanta, il dialogo con la Cina rappresenta oramai da più di un decennio una solida realtà al pari della mobilità studentesca, le certificazioni linguistiche.
Se lei fosse ministro della istruzione e glielo auguriamo di cuore, quali scelte farebbe in termini di priorità?
Non essendo politico, la mia visione della scuola è quella di un’istituzione sostanzialmente funzionale al conseguimento degli apprendimenti. Da questi ultimi dipende l’attitudine a riflettere, a discernere l’illecito dal bene e la necessità di perseguire quest’ultimo con convinzione. Per svolgere adeguatamente qualunque tipo di lavoro servono attrezzi di prim’ordine: non è più credibile che gli alunni possano essere coinvolti da docenti non disposti alla comprensione della loro realtà. Solo docenti preparati riescono a interessare gli alunni e a farli studiare: basti pensare ai nostri vecchi maestri. Anche gli studenti soffrono l’appiattimento che la globalizzazione, in un certo senso, impone progressivamente, ma seguono con entusiasmo chi riesce a proporre loro percorsi congeniali, accettandone il rimprovero e il giudizio qualunque esso sia. La scelta di fondo quindi sarebbe quella della formazione continua dei docenti, del monitoraggio delle loro azioni professionali al fine di combattere quell’aurea mediocritas che determina scontento, abbandono scolastico e che mortifica, in qualche caso quotidianamente, l’azione del giusto e il sentiero che porta all’eccellenza.
I risultati degli alunni dipendono anche da questo.
Conoscenza delle lingue, padronanza delle tecnologie digitali, che altro serve per preparare una nuova classe dirigente autorevole agguerrita competitiva?
Credo che la nuova classe dirigente debba essere efficiente, e ancor più, efficace e funzionale. Sembrerà banale e qualunquista forse ma, in primis, serve la cultura nel senso propriamente etimologico del “coltivare” e del “curare”. Infatti, essa sola, consente alle conoscenze e alle cognizioni intellettuali di essere rielaborate per acquisire e migliorare costantemente le facoltà individuali, tra cui, inevitabilmente, primeggia la capacità di giudizio. Senza la capacità di giudizio come si potrebbe dirigere un’azienda o la pubblica amministrazione; come potrebbe agire il decisore politico o un grande imprenditore?
Alla fine, lo studio risulta fondamentale e alla base di tutto. Ciò che, quando posso, rimarco agli allievi e ritengo silenziosamente sempre valido per me.
Rettore lei è un uomo di azione.
Dia un messaggio dal profondo del suo cuore ai nostri lettori
Non credo di essere un uomo di azione, men che mai “grande”. Piuttosto credo che l’esperienza, da un lato, e l’indole dall’altro, mi abbiano condotto a una scelta irreversibile: l’ascolto attento, il silenzio operoso, la presenza costante per disporre di una vision di sistema, il quotidiano impegno, l’azione metodica nel solco delle poche ma radicate convinzioni che ho tentato di condividere in precedenza. La scuola è il luogo della costanza e della continuità, non però della perenne conservazione e della prevedibilità: non servono scelte eclatanti ma, talvolta, coraggiose, che scardinano equilibri utili più agli adulti che agli allievi; che questi ultimi anzi, da soli, e non solo i migliori, rifiuterebbero. Scelte di merito, mi si dice spesso “impopolari”, ma che bisogna avere la determinazione di compiere, giorno dopo giorno, nella consapevolezza che il sapiente è spesso un giusto, per ipotesi, il giusto si avvicina molto al vero.
Pertanto, dal profondo del cuore, come dice, mi sento di poter affermare che è necessario cambiare ma non per il gusto di stravolgere e disorientare: solo per disvelare potenzialità, quelle vere, che, altrimenti, rischierebbero di rimanere nascoste, inascoltate e inespresse.