Per “Le Grandi Interviste” ho avuto il piacere di dialogare con Bruno Marasà funzionario europeo per circa trent’anni. Prima a Bruxelles e poi a capo dell’Ufficio del Parlamento europeo a Milano. Buona lettura!
Dottor Marasà, lei ha raggiunto i vertici dell’amministrazione pubblica europea, ha guidato il dipartimento esteri del gruppo del PSE per tanti anni, ha diretto l’ufficio del Parlamento europeo a Milano, ma io vorrei iniziare il nostro colloquio, per il quale le sono molto grata, partendo dal suo impegno politico. Bruno Marasà, siciliano, comunista già giovanissimo, amico personale di Emanuele Macaluso… continui lei…
La ringrazio per l’opportunità che mi dà di ricordare una fase ormai lontana della mia vita segnata, e ne sono orgoglioso, da un fortissimo coinvolgimento culturale, politico e sociale. Come tanti giovani della mia generazione (anche se un po’ precoce, avevo meno di sedici anni) ho potuto misurarmi con la rivoluzione del ’68. Attraverso le lotte studentesche, divenute presto impegno politico e sociale, in una piccola città della Sicilia, Enna, dove era arrivato il vento della rivolta. Ricordo i primi scioperi, i cortei, la partecipazione alle mobilitazioni sindacali per il lavoro e lo sviluppo.
Tutto si svolgeva in modo tanto intenso quanto veloce. In quegli anni ho avuto l’occasione di conoscere (allora significava possibilità di discutere) una personalità come Emanuele Macaluso. E il caso volle anche che da giovane dirigente della Federazione Giovanile Comunista Italiana (la FGCI), mi toccasse di presentare in affollati comizi leader come Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano.
Al congresso della FGCI a Firenze, nel 1971, fui eletto nel Comitato Centrale. L’occasione di confrontarmi con una dimensione più ampia che mi fece conoscere molte compagne e molti compagni che poi sarebbero diventati personalità di rilievo della sinistra italiana.
C’è una parentesi, che ovviamente bisogna collocare nel contesto storico di quegli anni, che mi portò a Mosca, dove trascorsi tutto l’inverno del 1972, presso l’Istituto di Scienze Sociali. Con noi italiani, c’erano giovani e studiosi provenienti da tutto il mondo. Allora il Pci aveva di fatto allentato i suoi legami con il PCUS, mettendo a dura critica le degenerazioni del “socialismo reale”. La nostra permanenza in quell’Istituto doveva servire, come lievito, a portare in un contesto universale gli orientamenti del partito di Berlinguer, ma anche a studiare, studiare tanto… Lenin, Gramsci, Togliatti, altri pensatori marxisti. Quell’esperienza mi aprì le porte del mondo che, per fortuna, non si sono più richiuse.
Allora però si tenevano i piedi per terra. Tornato a Enna, ricordo le mobilitazioni impetuose delle popolazioni delle zone interne della Sicilia, segnate da emigrazione e arretratezze.
Segretario regionale del PCI era Achille Occhetto che mi chiamò a Palermo come segretario regionale dei giovani comunisti. E, davvero una coincidenza fortunata per me, in quei mesi diventava Segretario nazionale della FGCI Massimo D’Alema. Due personalità che segneranno nei decenni successivi la vita politica italiana e non solo quella della sinistra. Fu Massimo a propormi come responsabile esteri. Anni intensi che coincisero con la stagione dell’eurocomunismo. Un fenomeno politico che travalicò subito la realtà nazionale ed europea e diventò di rilievo mondiale. In breve: straordinarie opportunità di confronto, discussioni, esperienze concrete, che certamente avrebbero lasciato il segno sulla mia formazione.
La passione per lo studio (Gramsci scriveva che lo studio è fatica, organizzazione) mi spinsero a completare gli studi e a laurearmi in Scienze Politiche con una tesi sulla Comunità europea. Anche quella una scelta che avrebbe segnato i miei interessi futuri.
Non posso non citare però, e mi scuso per questa ulteriore nota autobiografica, la straordinaria esperienza a fianco di Pio La Torre, tornato in Sicilia per guidare la lotta alla mafia e per la pace contro i missili a Comiso. Ho ancora viva nella memoria la straordinaria manifestazione del 4 aprile 1982 con oltre centomila partecipanti provenienti da tutta Europa. Furono giorni e settimane di straordinaria mobilitazione, raccogliemmo in Sicilia un milione di firme per la pace, nelle sezioni del PCI, del PSI e della DC siciliana, accanto a vescovi, parroci, intellettuali, braccianti ed operai. Ero uno dei collaboratori più stretti di Pio, parlai con lui la sera prima del suo assassinio. Cadde a Palermo, insieme a Rosario Di Salvo, ucciso dalla mafia, la mattina del 30 aprile.
Da allora, come usava nel PCI, ho seguito un cursus honorum rigoroso. Consigliere comunale, ma anche molto lavoro nelle organizzazioni di partito, a contatto diretto con militanti, giovani, cittadini.
Di quegli anni mi è rimasta impressa, mi ripeto forse, la serietà dell’impegno. Con i militanti, nelle riunioni a Roma, a Palermo, in tante città, e per ultimo a Milano. Assolvere a compiti organizzativi, ma anche prepararti prima di prendere la parola in una riunione. E arricchire le tue opinioni come risultato del confronto e dell’ascolto con gli altri.
Poi ad un certo punto della sua vita abbandona la falce e il martello ed arriva a Bruxelles… perché? Chi e cosa la spinge? Perché sceglie la causa europea?
Capisco il suo riferimento al superamento della tradizione comunista. Vissuta, come sa, da milioni di compagne e compagni con passione e grande trasporto umano. È vero che la trasformazione del PCI in PDS prima, poi DS, ha influito nei destini di molti di noi. Per me, però, la vicinanza con la tradizione socialista europea era un fatto concreto dalla fine degli anni ’70, quando avevo avuto l’occasione di partecipare a fruttuosi incontri con i giovani della SPD tedesca o quelli della socialdemocrazia svedese di Olof Palme. In realtà, con l’incitamento di Berlinguer, noi giovani comunisti praticavamo già la ricerca di una via europea al socialismo, autonoma dalla logica dei blocchi.
L’Europa, quella della costruzione di istituzioni comunitarie, era rimasta al centro dei miei interessi di studio. Sono stato tra i primi specializzati, alla Statale di Milano, sotto la guida di un grande giurista come Fausto Pocar, in Diritto ed Economia delle Comunità europee. Non ci crederà, ma allora studiare l’Europa comunitaria non era proprio di moda. Mi sentivo come un militante dislocato sulla linea più avanzata del fronte.
È così che, ad un certo momento, l’impegno politico si è trasformato in un lavoro con un forte accento professionale. Dico spesso ai miei nipotini che questa è diventata la mia “seconda vita”. Un passo indietro rispetto all’agire politico, ma una porta spalancata dentro le istituzioni comunitarie, la conoscenza dei loro meccanismi, e la possibilità di apprezzare concretamente il valore della scelta europea. Per oltre vent’anni sono stato consigliere politico del Gruppo del PSE (e poi S&D) per la politica estera e di difesa. Con un interesse particolare, dovuto alle mie funzioni, per il Mediterraneo e il Medio Oriente. Devo frenarmi nel racconto… quanti incontri, con Arafat, Shimon Peres, quante missioni a Gerusalemme, in Egitto, in Marocco, in Siria, in Libano, quante risoluzioni negoziate su quei temi nel Parlamento.
Ci racconti ancora del suo percorso europeo. Lei ha visto passare a Bruxelles D’Alema e Veltroni, Napolitano e Imbeni, Bersani e Ruffolo, Bruno Trentin…ma c’è una personalità che lo ha colpito di più, o che lei ha amato di più? Ci racconta qualche aneddoto meno conosciuto di queste personalità.
Un’opportunità straordinaria di cui sono riconoscente a quanti me lo hanno consentito: Luigi Colajanni, Pasqualina Napoletano, Martin Schulz e, non potrei non citarlo, Gianni Pittella. E naturalmente le altre personalità che lei ha citato.
Ne approfitterei per fare una considerazione più generale. In Italia, sia la stampa che la stessa politica nazionale hanno sottovalutato, talvolta in maniera macroscopica, non solo il valore della politica europea, ma le concrete realizzazioni, raggiunte nel dialogo tra Consiglio dei ministri, Parlamento europeo, Commissione. Di questi risultati il merito è di tanti parlamentari europei (e, a costo di entrare in conflitto d’interessi, non posso non citare di nuovo Gianni Pittella, autore di straordinari e fruttuosi negoziati sul bilancio e su molti altri dossier legislativi).
Proprio nei giorni scorsi, a un convegno, mi è capitato di ricordare con quanta disciplina e abnegazione personalità come Trentin e Cofferati hanno svolto un lavoro quotidiano nel Parlamento di cui nelle cronache italiane non c’è traccia. E invece lì, con l’indirizzo e il contributo di tanti, si sono costruiti pezzi importanti del futuro europeo. I negoziati su Trattato di Maastricht, l’allagamento ai paesi dell’Europa centrale e orientale dopo la caduta del muro di Berlino, la Strategia di Lisbona, dopo vent’anni di grande attualità, la Convenzione per la Costituzione per l’Europa.
Tra le personalità da lei citate, per il prestigio indiscusso, ho ben presente il ruolo di Giorgio Napolitano, Presidente per cinque anni della Commissione Affari Costituzionali del PE. Come non provare di fronte a una personalità come lui, che pure conoscevo dagli anni’70, un doveroso rispetto! L’approccio riservato nei suoi confronti, era alleggerito tuttavia dal suo desiderio, ogni tanto, di mangiare un semplice piatto di spaghetti nelle sere trascorse a Bruxelles. Allora avevo l’onore di averlo ospite a casa e poter discutere con lui delle cose del mondo in assoluta libertà.
C’è un episodio tra i tanti che vorrei ricordare. Riguarda ancora Napolitano ed un’altra personalità storica del socialismo europeo, Michel Rocard. Per normali ragioni di avvicendamento nel corso della legislatura si trattava di scegliere il Presidente della commissione Affari Costituzionali. Sulla base degli orientamenti delle rispettive delegazioni nazionali all’interno del Gruppo socialista, entrambi erano candidati e non si era riusciti a trovare una soluzione. Si decise così per una democratica discussione e votazione nella plenaria del Gruppo. Tutto alla luce del sole. Napolitano e Rocard, illustrarono le ragioni delle loro candidature! Inutile adesso raccontare i dettagli. Per fortuna non si arrivò alla conta finale perché la delegazione francese ritirò quella di Rocard, ma che classe, che livello elevato di discussione.
Con Massimo D’Alema c’era l’abitudine di tenere un convivio durante le sessioni di Strasburgo. Nel suo caso politica e vicende umane si scioglievano nel corso di serate che seguivano le lunghissime giornate trascorse dentro il Parlamento. Non dico niente di segreto o di nuovo, vale per tutti. Una forte personalità politica, diligente e impegnata, sa ben distinguere tra l’impegno pubblico e la normalità di una discussione tra amici, per questo non meno appassionata, e a tratti, per sciogliere la fatica, scanzonata. E sono contento di aver avuto questa opportunità.
Lei è stato a lungo il capo della sede di rappresentanza del Parlamento europeo a Milano… com’è l’Europa vista dall’Italia, con i suoi occhi?
Grazie di questa domanda. L’esperienza del contatto diretto con i cittadini e soprattutto con i giovani nelle scuole e nelle Università di questi anni è stata molto gratificante. Così come la consuetudine d’incontro con amministratori locali, imprenditori, sindacalisti. Eppure, nonostante l’impegno a Bruxelles e a Strasburgo dei parlamentari europei impegnati su dossier legislativi complessi e difficili da negoziare con i loro colleghi degli altri gruppi, di tanti paesi, la conoscenza dell’Europa nella realtà nazionale rimane un serio problema. Dobbiamo confrontarci (il problema esiste ancora oggi) con la mis-conoscenza della legislazione europea, del “chi fa che cosa”. La comunicazione, quella dei giornali, delle TV, risolve tutto semplicisticamente nel famoso: “ce lo chiede Bruxelles”, ”Bruxelles ha deciso”, e così via.
Il confronto parte sempre con la penalità (l’Europa matrigna) prima di poter dire quello che fa (o non riesce a fare) l’Europa. Ci vuole fatica e pazienza per spiegare come e perché l’Unione europea e le sue istituzioni adottano le decisioni che poi riguarderanno la vita di milioni di cittadini.
Per fortuna, la risposa europea alla crisi provocata dalla pandemia del COVID 19, ha rotto questo schermo. In pochi mesi si sono prese decisioni che si tardava ad adottare da anni. Con il Next Generation EU, tutti hanno scoperto che l’Europa non solo non è matrigna (a pensarci bene non lo è mai stata), ma solidale e generosa con i suoi cittadini. È una svolta epocale di cui vediamo già le prime conseguenze se si pensa che il nuovo governo in Italia nasce con la discriminante del suo essere “europeista”.
Bruno Marasà non l’aduliamo se ricordiamo il suo essere profondo conoscitore delle politiche internazionali, oltre che di quelle europee… uno sguardo oggi sul mondo colpito al cuore dalla pandemia, ma anche con qualche segno di speranza come l’elezione del Presidente Biden.
La politica internazionale meriterebbe molta più attenzione in un paese come il nostro. Non si partirebbe certo da zero. Prima citavo Berlinguer e l’eurocomunismo e il clamoroso rilievo mondiale avuto da quelle scelte, per quanto controverse. Potrei dire che per decenni grazie a leader come Moro o Andreotti o Craxi l’Italia ha saputo operare nel contesto mondiale con autorevolezza.
Negli anni più recenti questo si è affievolito. Anche a causa dei grandi sconvolgimenti intervenuti nella realtà mondiale. Si pensi, per fare un esempio, alla crescita impetuosa della Cina. La globalizzazione, purtroppo, ha contribuito ad indebolire, se non distruggere, il multilateralismo che per una lunga fase ha permesso una qualche forma di cooperazione a livello mondiale. Sono aumentati i conflitti, ma facciamo presto a considerarli come eventi locali o regionali, isolati dal contesto mondiale. Aumentano in misura crescente i fenomeni migratori. È aumentata l’emergenza climatica. In questo campo, per fortuna (e grazie all’Europa), si sono costruiti tavoli negoziali, penso alla Conferenza di Parigi, che hanno fissato obiettivi ambiziosi.
Il disordine mondiale negli ultimi anni si è accresciuto. C’è stato poi il periodo della presidenza Trump che ha ulteriormente indebolito il multilateralismo, la cooperazione internazionale. L’elezione di Biden è un segno di speranza. Grazie alla sua esperienza, i suoi primi atti presidenziali confermano che ci potrà essere presto una inversione di tendenza. Questo cambiamento però non potrà reggersi su basi solide se l’Unione europea non riesce ad affermarsi, pur all’interno delle alleanze storiche, come una potenza “gentile”, artefice del negoziato sui maggiori temi: cambiamento climatico, aumento delle disuguaglianze, gestione dei fenomeni migratori provocati da guerre e conflitti, siccità e fame.
Possiamo, dobbiamo, guardare con fiducia al futuro a condizione che le classi dirigenti siano capaci di innovare. Massimo D’Alema in un suo recente volume ha riportato alla luce un’espressione degli anni ’70, la “coesistenza pacifica”. Ecco, credo che ci sia bisogno di qualcosa del genere per garantire un governo più consapevole della realtà mondiale e dei suoi problemi.
Prima di salutarla dottor Marasà vogliamo conoscere la sua opinione sull’attualità politica… Draghi, la crisi politica, le prospettive per l’Italia…
Il Governo Draghi, non spetta a me giudicare il contesto politico che l’ha originato, esprime il meglio che si potesse immaginare per un paese che ha enormi problemi. Con Draghi crescerà la consapevolezza che l’Italia si salva se si salva l’Europa, sia sotto il profilo economico, per superare le conseguenze della pandemia, che culturale e politico. L’Europa, nonostante le sue crisi, è rimasta un baluardo della democrazia, dello stato di diritto, della difesa dei diritti umani. Ecco, mi piacerebbe concludere questa conversazione, di cui la ringrazio, ricordando che questi valori e questi principi sono scolpiti nei Trattati europei. Si tratta di rispettarli e lavorare perché si affermino al suo interno e nella realtà mondiale.
Grazie dottor Marasà è stato un grande piacere ospitarla sul nostro portale.