“La storia della nostra terra” è la nuova rubrica su questo portale, una serie di articoli a cura dello storico e Avvocato Antonio V. Boccia che ci accompagna in un percorso di scoperta storica della Basilicata. Buona lettura!
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A cavallo dell’anno Mille la situazione geopolitica della regione inizia a definirsi in maniera più stabile. Esistono infatti due distinte aree, entrambe in orbita bizantina: quella meridionale, che ricomincia a chiamarsi Loukanìa (che rappresenta una sorta di cuscinetto tra la Kalabrìa e i possedimenti longobardi e, dunque, costituisce l’ampliamento del cosiddetto ‘limes sinnico’); mentre la zona centro settentrionale -che invece è stata ripresa sul finire del decimo secolo- sta per essere rimodellata dal potere di Costantinopoli: in particolare, si deve osservare che quest’altra area, ormai ‘lucana’, viene di fatto legata alla prima solo grazie allo ‘scorporo’ di alcuni territori della Langobardia, i quali vengono poi riuniti alla parte meridionale (che già esiste, in quanto nucleo residuo dell’antica regione romana).
In quest’epoca è presente, inoltre, una differenza culturale molto netta tra le due parti che vanno a comporre il nuovo Thema bizantino: di fatti l’area posta a nord è latinizzata, mentre quella posta a sud è assolutamente grecofona. Si tratta quindi di zone abitate da gente che adotta differenti costumi, riti e liturgie e che usa tradizioni diverse; ma soprattutto, sono diversi anche la lingua e anche il diritto che viene applicato fino ad allora. Perciò, se a Potenza, a Venosa, a Bantia e ad Anxia si è continuato a parlare in latino e si è applicato il diritto romano-germanico, come pure nella longobarda Brienza, questo invece non accadeva nelle nuove città di Melfi, Cisterna e Rapolla, che sono state solo di recente edificate (o riedificate) dai bizantini e quindi adottano lingua greca e diritto imperiale; così come, peraltro, si parla il greco pure a San Chirico sul Raparo, a Cersosimo, Tursi, Episcopia, Maratea, Carbone, Policoro, Andriace, San Teodosio e Lauria, centri quest’ultimi che sono sorti pochi decenni prima, grazie all’incastellamento voluto dagli imperatori d’oriente lungo l’istmo del Sinni.
Al fine di ‘armonizzare’ e rendere più omogenee le due aree, inoltre, Costantinopoli non si era limitata a creare degli insediamenti fortificati, ma aveva ritenuto di dover istituire nuove abbazie, intese non solo come centri religiosi ma anche come centri di potere, propulsori di cultura. Sotto tutti i punti di vista, quindi, la Lucania bizantina segue le medesime regole che valgono per il resto del Catepanato. Sul punto, conviene dare un breve cenno di inquadramento, più generale: infatti l’istituzione del Catepano fu una grande novità, che generò la nascita di strutture e di forme di governo locale inedite. Per molti versi, del resto, possiamo asserire che i comuni -tanto celebrati come forma autonoma e indipendente di autogoverno- sorsero dapprima nel Mezzogiorno, ossia in Lucania, Puglia e Calabria, nel periodo di cui stiamo parlando.
Pensiamo innanzitutto al ruolo dei kritòi -plurale di krités– che ritroviamo nelle varie città lucane dell’interno, sedi di diakratesis (una sorta di distretti che riunivano più kastra) e alla rivitalizzazione della vita cittadina, vissuta sino al calare dell’Undicesimo secolo, grazie agli ordinamenti comunali rinnovati.
Di fatti, è proprio attorno al Mille che fiorirono, secondo i dettami militari, le città-fortezza, di cui il Synoro costituiva l’emblema: Moratikon, Lavrotikon ed Episkopion, ad esempio, conservano ancora il suffisso ‘oto’, dall’evidente sapore greco-bizantino quale desinenza indicante la provenienza da quell’abitato (marateota, lauriota, episcopiota, come peraltro la conserva pure la viciniore città di Scalea). Ecco che i vari kastra diventavano man mano vere e proprie comunità locali, nelle quali (oltre alla coltivazione) si sviluppa nuovamente l’artigianato e, per l’effetto, rinasce anche il commercio.
Si può dunque notare che -con la dinastia Macedone- l’ estrema lontananza della penisola italica da Costantinopoli, già nei primi anni dell’undicesimo secolo ha finito per creare nel meridione d’ltalia un duplice effetto: da un lato, è certamente vero che sono valevoli sul territorio le concezioni giuridiche generali dello stato bizantino; ma, d’altro canto, proprio per effetto dell’eccessivo distacco dal potere centrale dell’imperatore (che deriva dalla estrema lontananza fisica dalla capitale) si va gradatamente sviluppando un modello organizzativo del tutto nuovo.
Insomma, per una serie di motivi, si assiste ad una presenza più formale che sostanziale del potere imperiale, eccezion fatta per la politica fiscale che, ovviamente, era direttamente condizionata dai vertici della nomenclatura.
Tanto che poteva lentamente risorgere, parallelamente alla nomenclatura militare, una borghesia magnatizia locale che amministrava terre e città e gestiva il danaro, che aveva ricominciato a circolare: proprio questo era già accaduto in una parte specifica del Sud, ossia in quattro famose città campane di cui si farà subito cenno -evolutesi prima delle altre- le quali, di fatto, già da qualche tempo si erano sganciate dal potere imperiale (pur senza aver creato fratture nette) ed avevano, quindi, espresso una classe dirigente consapevole.
In effetti, vi è una evidente controprova sulla bontà e la fondatezza di quanto asserito, per tutto ciò che accadde in seguito: senza guardare necessariamente alla Venezia del Doge, infatti, è sufficiente dare uno sguardo alla Napoli ducale e alla sua flotta, ovvero alle altre città marinare come Sorrento, Amalfi e Gaeta, o anche alla più lontana Sardegna dei Giudicati (i quali sorsero e si svilupparono proprio sul proto-modello bizantino e che -per l’appunto- nel corso dell’undicesimo secolo si trovava allo stato embrionale nei territori sottoposti all’autorità romèa): tutte realtà che ormai solo formalmente erano amministrate da Costantinopoli.
Non a caso, sono gli stessi eventi storici che si succedettero nell’Italia meridionale, del resto, a confermare decisamente l’esistenza di una vita autonoma e organizzata dei territori meridionali e delle maggiori città governate dai rhomaioi ed il loro progressivo affrancamento: si pensi innanzitutto all’esempio pratico di Bari, sede del Catepanato, o alle rivolte locali di altre città pugliesi, che sono ben documentate.
Naturalmente le città sorte in Loukanìa non si sottraggono a questa evoluzione: soprattutto le più importanti, come Tursi e Lauria, che diventano sedi di diakratesis.
Tale vitalità, tuttavia, dovette subire una brusca frenata all’arrivo dei normanni, con il successivo accentramento verticistico dei poteri politici locali e, di conseguenza, con una forte restrizione dell’autonomia della vita cittadina (che verrà condizionata gradatamente, ma fortemente, da parte della monarchia normanno-sveva): di fatti l’ introduzione di un vetero modello feudale di stampo franco-longobardo affossò e inaridì quelle autonomie territoriali che erano fiorite al Sud tra il Decimo e l’Undicesimo secolo, cioè durante l’ultimo periodo bizantino: ciò accadde naturalmente anche per le città lucane, come vedremo nella prossima puntata della rubrica. Peraltro non deve sfuggire che i normanni presero la guida dell’Italia meridionale proprio nel momento in cui essa stava per essere completamente riunita sotto l’egida di Bisanzio, che era dunque pronta a dare una spallata decisiva ai decrepiti principati longobardi.
Per contestualizzare, infine, ci sembra il caso di fornire un elenco dei maggiori centri religiosi greco-ortodossi, attivi nella Lucania bizantina tra il decimo e l’undecimo secolo: essi rappresentarono infatti l’ ‘istituzionalizzazione’ ed il riordino -realizzato dal potere imperiale tramite il Catepano- delle varie ondate migratorie di monaci basiliani, dapprima eremiti, che si erano disordinatamente susseguiti nel corso dei secoli, anche e soprattutto nelle terre calabro-lucane (quanto meno dal VII in poi). Essi funsero, inoltre, da centri di irradiazione della cultura greco-medievale. Ma di questo ci occuperemo diffusamente nella prossima puntata.