Questa domenica per “Le Grandi Interviste” ho avuto l’onore di pubblicare la intervista che abbiamo realizzato con il sen. Gianni Marilotti, che, oltre ad essere un autorevole parlamentare della Repubblica, è una stimata e limpida personalità culturale del nostro Paese. Di seguito una mini bio. Buona lettura!
Nel 2003 ha partecipato alla XVI edizione del Premio Italo Calvino vincendo la competizione con il romanzo La quattordicesima commensale pubblicato l’anno successivo e premiato anche con il Premio del Giovedì Marisa Rusconi. Presidente e fondatore dell’associazione culturale Mediterranea, è anche autore di saggi di natura storico-politica. In Senato egli presiede la prestigiosa Commissione per la Biblioteca e gli Archivi storici.
Grazie Presidente per aver accolto il nostro invito.
Allora ci parli della sua attività istituzionale.
Nella mia nuova veste di parlamentare ho cercato di portare avanti istanze e battaglie che avevano fino allora caratterizzato il mio impegno politico nella società civile. Alcune di livello nazionale ed internazionale, altre più specificamente legate alla terra in cui vivo. Concretamente, ho seguito l’iter della proposta di legge popolare per la reintroduzione in Costituzione del principio di insularità (inopinatamente tolto con la riforma del Titolo V), approvato dalla Commissione Affari Costituzionali e in attesa di approdare in Aula; fin dal primo giorno della mia attività parlamentare ho seguito il progetto internazionale dell’Einstein Telescope, vale a dire la realizzazione di una grande infrastruttura nel campo della misurazione delle onde gravitazionali, che la società mondiale degli astrofisici intende realizzare in Barbagia presso le miniere di Sos Ennatos nel paese di Lula, ritenuto il sito ideale; progetto che è stato inserito nel Recovery plan, capace di portare duecento posti di lavoro altamente qualificati in una delle aree più spopolate e depresse; sto seguendo il progetto di un parco genomico in Ogliastra, un’altra sub-Regione ad alto tasso di spopolamento, in modo da valorizzare una delle 5 Blue Zone del mondo, con iniziative di ricerca biomedica, genetistica e antropologica sulla longevità. Mi sono battuto per politiche di coesione territoriale, in particolare per il contrasto allo spopolamento di intere aree della Sardegna che ha oggi uno sviluppo demografico “a ciambella” nel quale i 4/5 della popolazione vive in zone costiere. Su un piano più nazionale, ho chiesto e ottenuto un affare assegnato sulla situazione degli archivi di Stato che vivono uno stato di grande sofferenza. Ho costituito un intergruppo parlamentare sul caso Julien Assange per monitorare il processo per l’estradizione negli USA attualmente in corso a Londra. Ho nel frattempo presentato tre proposte di legge: la prima di ratifica della Carta europea sulle lingue regionali e minoritarie; la seconda sulle fragilità con l’abolizione dal Codice Civile delle figure dell’interdizione e dell’inabilitazione e rafforzamento dell’Amministrazione di sostegno; la terza sulla limitazione del segreto nella pubblica amministrazione. La prima, quella sulla lingua, dovrebbe approdare in Aula dopo l’esame congiunto della Commissioni I e XIII, le altre due senza la volontà politica temo che non troveranno spazio.
Lei è anche componente della commissione speciale contro i discorsi intrisi di odio, che è presieduta dalla senatrice Liliana Segre, ci dica innanzitutto la emozione e i sentimenti che sta provando lavorando gomito a gomito con una donna che ha vissuto la tragedia orribile dell’odio razziale.
L’impegno della senatrice Segre è encomiabile e commovente. Tutto il Senato ha accolto la sua proposta di costituire una commissione speciale di contrasto ad un fenomeno, quello dell’incitamento all’odio, in crescita in tutto il mondo. Sarà un lavoro di ricognizione e di analisi del fenomeno che dovrà concludersi con indicazioni al governo sulle misure più idonee e appropriate per contrastarlo. Certamente è un piacere ed un onore lavorare fianco a fianco con una donna straordinaria.
Riuscirete a separare il grano dalla gramigna, cioè a combattere le parole di odio e gli odiatori di professione e preservare il libero esercizio di pensiero che, in campo culturale, ha avuto eccelse espressioni in opere come quelle di Virgilio, Dante, che certo non devono cadere nella censura?
Lei ha toccato un tema fondamentale. Bisogna stare attenti, pur nel difendere strenuamente, senza mai desistere, i sacrosanti diritti di popoli, etnìe, gruppi religiosi, persone singole, a non cadere in un’assurda dittatura d’umiliati e offesi, che, come Domiziano e come qualunque tiranno d’ogni epoca, voglia imporre bavagli alla libertà d’espressione del pensiero e della parola ragionata, anche manifestata con la veemenza dello sdegno, bollandola immediatamente come “discorso d’odio”; perché se d’odio si deve parlare, nessun odio è più feroce e nessun’intolleranza è maggiore di chi separa uomo da uomo e vuole annientare l’avversario, l’“altro da sé”: ed è questo quel che sta succedendo, questa è la deriva che sta prendendo quella che prima è stata diffusa per anni come “correttezza politica” e oggi diviene insistenza talora trabordante su un “hate speech” che vede odio anche dove quest’odio non c’è affatto, ma c’è solo giovevole dialettica di tesi e antitesi: alle aspirazioni all’universale e all’unità del genere umano che animavano lo stoicismo, l’umanesimo classico, l’illuminismo e persino alcuni dei movimenti novecenteschi degli anni ’60 e ’70, si sostituisce sempre più un “pensiero tribale: ognuno sta dentro il suo gruppo (etnico o di preferenze sessuali) come nella tribù che lo fa sentir bene. Verso tutti gli altri, l’atteggiamento è: «Voi non comprendete la mia esperienza e i miei sentimenti, perché non siete come me […] … dunque non vi ascolto nemmeno». Il risultato è, come afferma Gregg Lukianoff, “la nuova segregazione fra gruppi che si estraniano e si vivono come ostili e incomunicabili”. Oggi, la sempre maggiore diffusione d’ideologie che si presentano come assolute e indubitabili, come “pensiero unico” e indiscutibile, propone di fronte a chi ha responsabilità normative o d’indirizzo un grave pericolo: cioè quello non solo di bollare come ‘eretico’ qualunque dissidente per difformità di pensiero, ma di trattarlo persino come criminale che abbia già consumato una sua azione perniciosa: è la tecnica adottata anticamente dall’ampia e antica produzione antiereticale della letteratura patristica, con gli effetti devastanti che tutti conoscono, durati poi per secoli nella nostra storia.
Si ha la sensazione che una tendenza normativa intenda mettere in atto leggi e giurisprudenza incentrate non già su misfatti compiuti bensì su legittimi convincimenti, i quali, se non si concludono in azioni perniciose, costituiscono invece la sostanza stessa di una società che intende caratterizzarsi come pluralista e democratica.
Sembra infatti che il legislatore, invece di percorrere il cammino certamente più lungo che passa attraverso seri processi formativi ed educativi sin dalla gioventù, s’illuda di por fine ai guasti sociali attraverso una pletorica stratificazione normativa (corruptissima republica, plurimae leges!), la quale, nella più rosea delle ipotesi, interverrebbe soltanto a valle (cioè nei sintomi) e non già a monte (cioè sulla scaturigine prima dei comportamenti castigabili).
La sua idea per rilanciare la Cultura e la Istruzione in Italia, basterà il Recovery plan?
La mia impressione è che dobbiamo riflettere molto bene su un concetto che da qualche tempo viene ripetuto come un mantra: dobbiamo spendere le risorse del Recovery plan in fretta e bene; l’avverbio “in fretta” e l’aggettivo “bene”, potenzialmente antinomici, trovano una sintesi nell’espressione “progetti cantierabili”. Io noto che si insista oltre misura sulle infrastrutture materiali (edilizia, trasporti, sistema idrico, smaltimento dei rifiuti, etc.) e molto meno su quelle immateriali. Transizione ecologica, transizione digitale, efficientamento energetico sono certamente obiettivi strategici; tuttavia le infrastrutture umane non godono di altrettanta attenzione e tra queste c’è indubbiamente la cultura. Basterebbe completare il ricordato mantra in questo modo: “spendere le risorse del Recovery plan in fretta, bene e con misure che durino nel tempo” per richiamare i temi dell’istruzione, della ricerca, della salvaguardia del patrimonio architettonico, artistico e culturale, dedicando loro risorse adeguate. Io questo cambio di paradigma non lo vedo nel PNRR, perlomeno non lo vedo quanto sarebbe necessario. Viviamo in un’era che è stata definita dai geologi dell’antropocene, caratterizzata dallo strapotere dell’uomo sulla Natura, sottoposta a stress (mutamenti climatici, biologici, eco sistemici) al limite del collasso.
Quattrocento anni fa Tommaso Campanella nella Città del Sole ci raccontava che i Solari rispettavano ilnostro padre Sole e la nostra madre Terra. Quando abbiamo iniziato a misconoscerli?
Da tempi antichissimi divinità celesti, prevalentemente maschili, e terrestri, coniugate al femminile hanno popolato la nostra cultura e il nostro immaginario. Con la scoperta del fuoco abbiamo creduto di poterci elevare al di sopra del padre Sole, ma per poter portare avanti fino al parossismo questo desiderio prometeico di farci padroni del mondo abbiamo con autentico spirito maschilista dovuto umiliare, asservire, violentare la nostra madre Terra, la Natura intesa come qualcosa alla nostra mercé.
Il mutamento drastico nell’immagine della Natura da organismo a macchina ha avuto un forte effetto sugli atteggiamenti della gente nei confronti dell’ambiente naturale. La concezione organica del mondo propria del Medioevo e del Rinascimento implicava un sistema di valori che sfociava in un comportamento ecologico. Non si sgozza facilmente una madre, non si scava nelle sue viscere per cercarvi oro, né si mutila il suo corpo…Finchè la Terra fu considerata viva e sensibile, il compimento di atti distruttivi contro di essa poteva essere riguardato come una violazione di un comportamento umano etico. Ecco, dobbiamo tornare a quello spirito e rimettere in sintonia Natura e Cultura.
Lei è anche un combattivo promotore di misure per le minoranze linguistiche, per la insularità …
La condizione di insularità, se non affrontata con misure adeguate, porta degli svantaggi strutturali che minano il principio della libera concorrenza. Tutti gli studi socio-economici lo dimostrano: gli svantaggi in termini di costi per i trasporti, per l’approvvigionamento energetico, per la realizzazione di infrastrutture sono stati ampiamente evidenziati. Le imprese sarde, ma anche gli investitori continentali, devono fare i conti con questo gap. Finora l’atteggiamento della classe dirigente sarda si è orientata verso richieste di “risarcimenti”. Oggi vi è una consapevolezza diffusa, espressa in una proposta di legge di iniziativa popolare che ha raccolto 120.000 firme, di reinserire il principio di insularità in Costituzione. Anche qua vi è un cambio di paradigma: vogliamo competere alla pari nel mercato unico europeo, non vogliamo elemosine. L’inserimento in Costituzione dell’insularità attraverso la modifica dell’articolo 119 della Carta, piena attuazione dell’articolo 13 dello Statuto Autonomistico, rispetto degli articoli 174 e 175 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, risoluzione del 4 febbraio 2016 del Parlamento europeo: questi i riferimenti normativi per attuare una politica di riequilibrio di opportunità oggi negato.
Per quanto riguarda la lingua, la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, aperta alla firma a Strasburgo il 5 novembre 1992 e firmata dall’Italia il 27 giugno 2000, attende ancora una legge di ratifica. Tale Carta si pone l’obiettivo di tutelare le lingue regionali o minoritarie e promuovere il loro utilizzo al fine di salvaguardare l’eredità e le tradizioni culturali europee, nonché il rispetto della volontà dei singoli di poter usare tali lingue nell’ambito delle attività pubbliche o private.
Il “rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze” è, come specificato dal Trattato di Lisbona, uno dei principi su cui si fonda l’Unione Europea. Il rispetto, la tutela e la promozione delle lingue minoritarie e delle comunità che le parlano, figurano inoltre non solo tra i principi della Costituzione della Repubblica italiana (articoli 3 e 6), ma anche tra quelli di diversi Statuti di autonomia regionale e sono all’origine di leggi statali e regionali, a cui si è aggiunta recentemente la Legge regionale per disciplinare l’uso della lingua sarda e degli altri idiomi parlati in Sardegna (catalano, gallurese, sassarese e tabarchino). Tale legge varata il 27 giugno 2018 dal Consiglio regionale sardo si pone l’obiettivo di garantire uno status ufficiale all’idioma dell’Isola e riattivare la trasmissione delle competenze linguistiche tra le diverse generazioni.
Ed è il promotore di misure per la massima trasparenza delle istituzioni, a cominciare dalla desecretazione degli atti della pubblica amministrazione … sta trovando ostacoli?
La ricerca di un punto di equilibrio tra il pericolo per le istituzioni e la libertà dei cittadini è la sfida cui Giuseppe Laterza fece riferimento, nella prefazione al libro di Stefano Rodotà sul diritto della conoscenza in rete del 2014: citando Erich Auerbach – che in Mimesis dice: “Avventuratevi nel grande mare del mondo, dove anche se con pericolo si può nuotare liberamente” – Laterza sostenne che “il diritto alla conoscenza, in definitiva, è proprio questo”. Un’avventura nel gran mare del mondo. Per nuotare liberamente nella sfera pubblico-politica, l’Autore ricorda che “gli arcana imperi sono sempre meno accettati. Gli arcana imperi, storicamente l’area riservata ai poteri pubblici, secondo la quale per poter svolgere correttamente la loro attività hanno bisogno di non rendere tutto immediatamente conoscibile alle persone, entrano subito in contrasto con una delle idee di democrazia, che è si governo del popolo, ma, come ci ha ricordato molto efficacemente Norberto Bobbio, è anche governo in pubblico, che significa appunto disponibilità della conoscenza da parte dei cittadini per poter controllare come i poteri vengono esercitati e più correttamente per poter partecipare alla vita della città pubblica. Vicende come quelle di Wikileaks e Datagate, emblematicamente riassunte nel nome di due persone, Julian Assange e Edward Snowden, hanno mostrato come fossero state colte tutte le opportunità tecnologiche per fare crescere quasi senza limiti le raccolte di informazioni e la loro conservazione in banche dati sempre più gigantesche, dove le informazioni sono divenute sempre più facilmente reperibili, alla portata di molti, accessibili a distanza, agevoli da divulgare. Snowden come Assange, era una delle migliaia di persone che avevano la possibilità di accedere a queste enormi banche dati, che sono state costruite senza avere la consapevolezza che si apriva nello stesso tempo un rischio sociale, perché queste grandi raccolte di informazioni sono di per sé e per il semplice fatto di essere gestite da molte persone intimamente vulnerabili, quindi non è mai una conoscenza immune da rischi. Nel momento stesso in cui io costruisco una conoscenza funzionale all’esercizio del potere, soprattutto del potere di controllo, introduco – ecco i rovesciamenti continui – un elemento di fragilità all’interno del sistema. Non c’è tuttavia soltanto il rischio legato a questo tipo di organizzazione delle informazioni, ma è nata una consapevolezza diffusa che lì, in queste enormi banche dati, in queste grandi raccolte di informazioni, si stava depositando un nuovo sapere percepito come sapere sociale, che non poteva più essere sequestrato secondo le vecchie regole del segreto, degli arcana imperi, e di cui i cittadini si sono progressivamente sentiti i veri proprietari e dunque legittimati a esercitare in questa direzione il loro diritto alla conoscenza. È sintetizzato in tre parole che noi troviamo nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948 “cercare, ricevere, diffondere” informazioni. Queste tre parole ci indicano un contenuto minimo del diritto alla conoscenza e ci dicono che c’è un sapere sociale che noi percepiamo non più appartenente agli altri, ma condiviso, socialmente condiviso, e quindi rispetto al quale abbiamo un diritto a conoscere; le difficoltà che in questo momento si incontrano nei confronti di Assange e Snowden, in particolare nei confronti del secondo, nascono proprio da questo paradosso, perché la rivelazione di Snowden ha aperto una questione planetaria su quale sia il diritto alla conoscenza addirittura degli Stati sugli altri Stati, dei governanti sui governanti di altri paesi, di agenzie di uno Stato particolare che esercita sovranità al di là dei propri confini, e questa rivelazione ha riaperto un tema di libertà a livello planetario, ma nello stesso tempo chi ha svelato tutto questo viene considerato autore di un crimine, e siamo di fronte ad una nuova contraddizione che deve essere sciolta. In questo caso il diritto alla conoscenza è il diritto di tutti i cittadini del mondo di conoscere come i detentori di grandi poteri, che ormai travalicano i confini degli Stati, possano esercitare questi stessi poteri e come possano essere controllati”.
Con una diagnosi così cristallina, patrimonio della nostra intellettualità più rappresentativa, è stupefacente che nel nostro Paese la prognosi resti ancora così oscura. Eppure l’opacità che ancora permane, intorno all’operato dei pubblici poteri nella storia italiana, dimostra quanto ancora ci sia da fare. La proiezione dei fatti nelle carte – non solo in Italia, ma anche in Italia – soffre delle medesime forme di ipocrisia, con cui si sono raccontati i fatti nel loro divenire. Ecco perché occorre passare attraverso una revisione della disciplina archivistica, offrendo al documento storico un trattamento conforme alle altre testimonianze appartenenti al patrimonio culturale del Paese: obblighi di non dispersione, di custodia, di tutela e di messa a disposizione della pubblica fruizione, discendenti dal Codice Urbani e dalla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005, ratificata con autorizzazione recata dalla legge 1° ottobre 2020, n. 133.
Ciò significa superare quella miriade di artifici amministrativi che finora sono stati escogitati, nelle pieghe delle norme, per impedire la consultabilità di atti fondamentali per la ricostruzione della Storia del nostro Paese, conseguendo di fatto un risultato anche peggiore di quello della disciplina del segreto di Stato, che formalmente ha un termine massimo di trent’anni.
Tra obblighi di interpello ad enti originatori, calcoli del dies a quo, vincoli di subordinazione dei dipendenti pubblici utilizzati a scopo deterrente, la realtà è che nessuno degli interessi, alla cui tutela è predisposto il segreto, è realmente posto in ragionevole bilanciamento con gli altri interessi pubblici: eppure, rispetto alla legge n. 124 del 2007, sono sopraggiunte previsioni che valorizzano questi ulteriori interessi pubblici, con i quali il raccordo va ricercato. In particolare l’articolo 5 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 offre lo strumento per conseguire “lo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”; anche l’articolo 3 della legge 30 novembre 2017, n. 179 valorizza “il perseguimento dell’interesse all’integrità delle amministrazioni, pubbliche e private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni”.
E sulla proposta di abolizione della misura di interdizione e di inabilitazione previste dal Codice Civile?
A quindici anni dall’entrata in vigore della legge n. 6 del 2004, sono maturi i tempi per l’approvazione del progetto abrogativo dell’interdizione e dell’inabilitazione, da anni invocato/annunciato a vari livelli: non sussiste alcuna seria ragione che giustifichi l’ulteriore conservazione nel c.c., in effetti, dei due vecchi modelli ‘incapacitanti’.
E anzi tale abrogazione è divenuta non più rinviabile, oggi, per un ordinamento giuridico che voglia dirsi realmente proteso al rispetto dei diritti fondamentali della persona fragile: quali, in primo luogo, la dignità personale e il diritto al sostegno.
Le caratteristiche del tutto negative proprie dell’interdizione (e dell’inabilitazione) sono molteplici. Esse possono, in estrema sintesi, così indicarsi:
– taglio espropriativo dell’interdizione: la persona interdetta viene collocata in uno status giuridico equivalente alla morte civile. Con l’interdizione, infatti, la persona risulta dichiarata legalmente incapace di agire, ciò che comporta l’espulsione totale della stessa dalla possibilità di compiere un qualsivoglia negozio produttivo di effetti, nei confronti dei consociati: non un contratto, non un acquisto, non il matrimonio, nè alcun atto di natura personale. La c.d. ‘protezione’ assicurata dai vecchi istituti tradisce, in realtà, valenze punitive ed escludenti, non più tollerabili in una società evoluta;
– mancanza di valore terapeutico: alla incapacitazione formale della persona, in tutto il suo essere, non si accompagna nella legge e nella prassi alcun progetto di risocializzazione-empowerment;
– enfasi solo economicistica: i soli interessi presidiati mediante i vecchi istituti sono quelli economico-patrimoniali, propri dei familiari e dei parenti;
– scarsa trasparenza del procedimento di interdizione e debolezza delle garanzie formali riconosciute all’interdicendo: di fatto, egli rimane ai margini del giudizio e, nonostante il codice di procedura civile gli riconosca la capacità di stare in giudizio personalmente (art. 716 c.p.c.), tale norma è di fatto disapplicata (tanto che il ricorso introduttivo non viene quasi mai notificato personalmente all’interdicendo);
– irrevocabilità “pratica” della misura: una volta interdetta, la persona è destinata nel 99% dei casi a rimanere tale per il resto dell’esistenza. Nonostante, infatti, la possibilità di revoca dell’interdizione (e dell’inabilitazione) figuri astrattamente prevista dalla legge, e malgrado l’esistenza stessa dell’amministrazione di sostegno costituisca ragione valida per la revoca delle vecchie misure, i casi di revoca effettiva sono oggigiorno scarsissimi.
Il disegno di legge si propone contestualmente l’obiettivo di rafforzare e migliorare la legge n. 6 del 2004 che introduce la figura dell’amministrazione di sostegno che di fatto ha sostituito quella del tutore.
L’ultima domanda, un po’ cattivella: perchè ha lasciato i 5 stelle e perché ha scelto il PD e come ha trovato il PD?
Quando sono stato candidato nel collegio uninominale della Sardegna meridionale, quale rappresentante della società civile, era noto il mio orientamento politico. Ho accettato, dopo iniziali perplessità, perché vedevo nel M5S una forza giovane animata da propositi di cambiamento. Il programma, a parte alcune ambiguità sull’Europa, sull’immigrazione e sui vaccini, mi sembrava in linea con il mio precedente impegno. Ero animato da una forte speranza che poi si è rivelata un altrettanto forte illusione e delusione. Non era mai successo, nemmeno nei tempi più fausti dell’era democristiana, che in Sardegna una forza politica esprimesse un numero di parlamentari così elevato: ben 16 su 25 complessivi, in Senato 5 su 8. Era un’occasione imperdibile. Dissi ai miei colleghi del Movimento 5 Stelle, ancor prima di assumere la carica: dobbiamo fissare un’agenda di priorità e impegnarci tutti a portare a casa risultati significativi sui seguenti temi: definire in modo equo l’annosa vertenza entrate tra Regione e Stato, riempire di contenuti il principio di insularità attraverso un tavolo negoziale Regione-Governo-Commissione UE per dare attuazione alla continuità territoriale, riqualificare lo Statuto Autonomistico attraverso la piena attuazione dell’articolo 13, ratificare la Carta di Strasburgo sulle lingue regionali e minoritarie; mobilità interna e contrasto al fenomeno dello spopolamento; salvaguardia del territorio e forte impegno nel campo dell’istruzione, ricerca e cultura. Ce lo chiedeva il 43% degli elettori sardi che ci avevano mandato in Parlamento. Purtroppo tra i 16 parlamentari sardi mancava una visione comune, ciascuno si è mosso seguendo logiche personali, di posizionamento, e finendo per appiattirsi sulle storiche battaglie del Movimento perdendo di vista una visione identitaria. Si spiega così l’abbandono dei territori e le sconfitte in serie (Regionali, Comunali, suppletive) che in tre anni hanno portato il M5S ad essere una forza politica sostanzialmente irrilevante. Io ho cercato di seguire quei dossier per mio conto con iniziative parlamentari e nel territorio, ma guardato con sospetto, come un corpo estraneo al Movimento, fino al mio abbandono con l’uscita dal gruppo.
Percepivo viceversa a livello nazionale un processo evolutivo, insofferente all’abbraccio mortale con la Lega e propenso ad un avvicinamento al PD, che poi è sfociato in un accordo di governo. Io sono sempre stato per questa linea, fin dall’inizio della legislatura. Ricordo che avevo chiesto che il M5S al Parlamento europeo e al Consiglio d’Europa aderisse al gruppo dei socialisti europei e, di fronte alle titubanze, avevo aderito individualmente a Strasburgo. Oggi alcuni giornali mi gratificano dello stigma di voltagabbana, recordman del cambio casacca. La realtà è che io sono sempre rimasto fermo all’orizzonte politico dell’alleanza strategica tra M5S-PD-Sinistra; se un rimprovero mi può essere fatto è di aver anticipato troppo questa soluzione. Il primo passaggio al sottogruppo delle Autonomie (che appoggiava il Conte 2) mi sembrava una buona soluzione che mi consentiva di portare avanti i dossier sulla Sardegna; il successivo passaggio al nascente gruppo degli Europeisti, su cui avevo molte perplessità, mi è stato fortemente sollecitato sia dal M5S sia dal PD per far nascere la quarta gamba del fronte democratico e progressista; allo scioglimento del gruppo sono entrato come indipendente nel gruppo PD. Mi pare di essere sempre rimasto nel perimetro del centrosinistra. Mi chiede come ho trovato il PD. Vedo che c’è un dibattito con posizioni anche differenti, ma con una volontà di ricomposizione: nei confronti dell’alleanza con i 5 Stelle, sulle aperture all’area moderata, su una maggiore incisività sulle riforme, sulla ridefinizione della sua identità. E’ un dibattito che attraversa l’insieme delle forze politiche e sociali del Paese e lo trovo persino positivo. Io cerco di portare avanti le mie idee democratiche e di sinistra, consapevole che la sinistra non può rimaner ferma all’armamentario del secolo scorso, che occorre dialogare e cercare l’unità con aree culturali più ampie: ambientaliste, liberal-democratiche, cattoliche, riformiste. Sono convinto che la deriva populista di destra possa essere fermata non da accordi di vertice tra M5S-PD-LEU, ma da un ampio arco di forze sociali e culturali capaci di praticare, a Roma come in tutti i territori, una politica capace di dare speranze alle vecchie come alle nuove generazioni.