Questa domenica per “Le Grandi Interviste” ho avuto il piacere di dialogare con Antonella Napoli. Donna che si è spesa molto nel suo campo e che oltre ad aver collaborato con importanti testate giornalistiche si è impegnata sul tema “Africa”. Prima di entrare nel vivo dell’intervista una mini bio di Antonella Napoli. Buona lettura!
Antonella Napoli, giornalista e analista di questioni internazionali, ha collaborato e collabora con importanti testate nazionali e estere, tra cui Limes, Vanity Fair, Left, Daily Mail, Sudan Tribune, Il Fatto, Avvenire, L’Espresso e Repubblica. Dal 2019 è direttrice della rivista Focus on Africa.
Ci può raccontare i suoi inizi?
“Ho mosso i primi passi nel giornalismo a Salerno, dove sono nata, e mi sono formata tra esperienze di vita e lavorative da Milano a Roma, da Londraa New York. Dal 1996 al 1998 ho lavorato come programmista regista per la Rai con servizi per “La cronaca in diretta” e “La vita in diretta” come collaboratrice dalla Campania. Poi è iniziata la mia passione per gli esteri e i viaggi. Ho realizzato inchieste e reportage in vari paesi del mondo tra cui Algeria, Botswana, Uganda, Congo, Sudan, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e molti altri stati africani e aree di crisi come il Sahara Occidentale e il Sahel, documentando emergenze umanitarie dimenticate e violazioni dei diritti umani, ma anche Medio Oriente e Asia, visitando e raccontando Turchia, Libano, Siria, Birmania e India. Ma è l’Africa la mia grande passione”.
Lei è autrice di vari saggi e libri, tra cui il best seller “Il mio nome è Meriam”, (Edizioni Piemme) tradotto in 6 lingue e pubblicato in 8 paesi, qual è l‘opera che più le ha dato soddisfazione?
“Beh, i libri sono come figli. Non può esserci un preferito. Ma il primo, pubblicato nel 2008, un reportage fotografico, poi divenuta mostra itinerante, “Volti e colori del Darfur”, avrà sempre un posto speciale nel mio cuore. E non solo perché per quell’opera sono stata insignita della Medaglia di Rappresentanza della Presidenza della Repubblica”.
Lei è anche impegnata in prima linea nella difesa della libertà di informazione e in generale dei diritti umani. Ce ne parla?
“Ho sempre avuto una vera e propria passione per i diritti umani. Per la Fnsi e Articolo 21 sono stata anche osservatore internazionale in diversi processi a giornalisti turchi, accusati ingiustamente di terrorismo. Il mio reportage “Turchia, la più grande prigione per giornalisti” ha chiuso la prima conferenza internazionale sulla Turchia dall’escalation di arresti e processi nel Paese dal fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 promossa dall’International press Institute e che si è svolta a Berlino nel 2018”.
Lei è stata fermata in Sudan e ha rischiato di subire torture. Ma ha sempre proseguito con coraggio il suo percorso. Ha mai avuto paura per la sua incolumità?
“Noi giornalisti non facciamo nulla di speciale. Non siamo eroi. Facciamo solo il nostro mestiere. Dopo il mio fermo ad opera dei servizi di sicurezza in Sudan nel gennaio del 2019 mentre seguivo le rivolte in atto nel Paese, nel giugno del 2019, ammetto che ci sono stati momenti di paura. Soprattutto quando attraverso una lettera recapitata alla Federazione nazionale della stampa, i Fratelli Musulmani sudanesi, facendo esplicito riferimento alla mia attività professionale, mi hanno intimato di non tornare in Sudan minacciandomi di morte. Ma questo non mi ha mai impedito di continuare a fare il mio mestiere”.’
Lei subisce spesso anche attacchi via social e riceve minacce, come si difende da tutto questo?
“Purtroppo sui social è un continuo, anche a inizio anno uno squadrista da tastiera mi ha augurato lo stupro. Nonostante tutto io non ho paura. Come sempre scatta la segnalazione, il blocco e la denuncia di questi signori. Perché questo è il solo linguaggio che i vili ‘leoni da tastiera’, nascosti dietro profili anonimi, capiscono”.
Lei ha fondato e dirige la rivista Focus on Africa, come vive questo ruolo?
“Con orgoglio ma soprattutto grande responsabilità. Chi ricopre il nostro ruolo deve passare ogni pezzo, essere sicuro delle cose che vengono pubblicate. Anche le cose più scomode. Poi se qualcuno decide di minacciare si accomodi; se abbiamo operato in modo rigoroso non possiamo farci intimidire. In questo senso la messa in sicurezza di una testata è un atto collettivo e occorre anche un impegno diretto del direttore in difesa dei collaboratori.
Questi principi sono validi anche per il giornalismo d’opinione?
“Sul giornalismo di opinione, l’area è molto più sfumata. È un campo in cui te la devi giocare con qualche rischio in più, perché la casistica è decisamente più controversa ed è un’area in cui la guerra è forte. Eppure anche qua si possono individuare le zone di pericolo a monte”.
Il web e le nuove testate in questo senso secondo hanno cambiato qualcosa circa la questione libertà di stampa?
“Se partiamo dall’assunto che la maggior parte delle querele servono a intimidire i giornalisti, il fatto che oggi queste crescano esponenzialmente con l’aumentare delle testate, significa che probabilmente si stanno indebolendo i media; così quello che dovrebbe essere uno strumento di tutela giuridica diventa un’arma di terrore di massa… la quale, fra l’altro, ultimamente, è usata non soltanto contro i giornalisti, ma, in rete, anche contro gli utenti. Capita sempre più spesso di imbattersi in persone che minacciano pubblicamente querele non soltanto nei confronti di un giornale o dell’estensore di un articolo, ma anche degli utenti comuni che diffondono il link all’articolo incriminato”.
Qual è il nodo principale quando si discute di giornalismo e libertà di stampa, secondo lei?
“Sulla faccenda querele, la questione più spinosa, a mio parere, è quella dello squilibrio tra querelato e querelante. Un giornalista che non ha un’assistenza legale garantita dalla testata per cui lavora e si trova a scrivere di argomenti delicati, in caso di denunce risponde col suo patrimonio personale. Rischia i risparmi della famiglia. Al contrario, i manager, la autorità pubbliche, gli amministratori delegati di grande aziende, i politici, a querelare hanno solo vantaggi: non pagano gli avvocati perché glieli paga l’azienda o magari il partito, quindi, se perdono, non perdono nulla ma se vincono e ottengono un risarcimento, la somma va a loro, non all’azienda o al partito. Per questo trovo avvilente che il Senato non sia ancora riuscito a portare in aula la proposta di legge contro le querele temerarie. Se entro la Legislatura non venisse approvato sarebbe una sconfitta per la democrazia prima che per i giornalisti”.