Il riemergere della competizione tra Stati Uniti, Cina e Russia, insieme alla crisi delle istituzioni multilaterali e alla frammentazione dell’ordine internazionale liberale, stanno ridefinendo la geografia del potere globale. L’Unione Europea si trova a dover ripensare il proprio ruolo e la propria capacità di azione autonoma. In tale scenario, siamo tornati spesso su una domanda, non soltanto retorica ma profondamente politica, che sorge spontanea: quo vadis Europa?
L’Unione attraversa una stagione in cui il suo destino politico e la sua identità strategica si giocano su due fronti cruciali: l’Ucraina e il Medio Oriente. C’è un fil rouge che unisce questi due dossier:entrambi raccontano di un’Europa che possiede tutti gli strumenti per agire, ma che ancora fatica a trasformarli in potere politico. In entrambi i casi, Bruxelles ha dispiegato una molteplicità di strumenti – diplomatici, economici, militari e umanitari, che attestano il grado di maturità istituzionale raggiunto dal processo di integrazione europeo. Tuttavia, a questa abbondanza di mezzi non corrisponde sempre una direzione politica coerente, bensì si è di fronte ad una linea politico-diplomatica attendista e frammentata.
La guerra in Ucraina ha rappresentato un punto di svolta per l’integrazione europea. In pochi mesi, l’Unione ha introdottomisure che fino a poco tempo prima sarebbero apparse impensabili: l’attivazione di ingenti pacchetti di aiuti finanziari e militari, sanzioni senza precedenti contro la Federazione Russa, il ricorso all’European Peace Facility per sostenere la difesa ucraina, e infine un dibattito, ancora aperto, sulla costruzione di una difesa comune. Questo insieme di strumenti rivela la straordinaria capacità dell’Unione di mobilitarsi di fronte a una minaccia esistenziale. Ma mostra anche i limiti di un assetto istituzionale ancora troppo condizionato da meccanismi intergovernativi. Ogni decisione strategica, in Europa, è frutto di un equilibrio precario tra ventisette interessi nazionali, spesso divergenti. Le discussioni su ulteriori pacchetti di sostegno a Kiev, sulle politiche energetiche o sull’adesione futura dell’Ucraina all’Unione ne sono la prova. Ne è una plastica esemplificazione il Consiglio europeo dello scorso 23 ottobre, in cui i 27 erano chiamati ad un importante test di credibilità per il futuro dell’Unione.
Un summit in cui la guerra in Ucraina è stata al centro dell’agenda, dati i numerosi nodi da sciogliere. Primo su tutti, l’utilizzo dei beni russi congelati come strumento di finanziamento di Kiev, un dossier delicatissimo, in quanto il Belgio, dove la maggior parte dei beni sono custoditi, teme eventuali ritorsioni da parte della Russia, e dunque un elevatissimo rischio finanziario e legale. In effetti, il primo ministro belga Bart De Wever è riuscito a negoziare un rinvio della decisione fino al prossimo consiglio. Un progresso significativo è stato invece raggiunto sul fronte delle sanzioni. I leader dell’Unione Europea hanno approvato il diciannovesimo pacchetto. Le nuove misure, adottate dopo che il premier slovacco Robert Fico ha ritirato il suo veto, prevedono lo stop completo alle importazioni di GNL russo entro la fine del 2026 e ulteriori restrizioni contro la cosiddetta “flotta fantasma” di petroliere usate da Mosca per eludere le sanzioni occidentali. Inoltre, i Ventisette hanno concordato una Defense Readiness Roadmap 2030, una tabella di marcia per coordinare il riarmo europeo fino alla fine del decennio. Il documento è ora al centro di trattative tra Bruxelles e le capitali nazionali, in un contesto ancora segnato da difficoltà di cooperazione tra Stati membri e da tensioni sulla scelta tra armamenti di produzione europea o americana. Il paradosso è evidente: l’Unione è una potenza economica di primo piano e tuttavia fatica a trasformare tale forza in un capitale politico. La sua voce, pur autorevole, non è ancora determinante.
L’Unione rischia di essere marginalizzata tra Washington e Mosca.In effetti, Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha sancito un mutamento notevole nella postura statunitense sul dossier ucraino. L’obiettivo primario dell’amministrazione statunitense sembra essere la normalizzazione con la Russia di Vladimir Putin, a discapito di Kiev e Bruxelles. Nell’ottica della politica estera neoimperiale di Trump, il possibile schema di “pace”, delineato al vertice di Anchorage, si basa su concessioni territoriali a Mosca, di cui si riconosce una sfera di influenza nell’area, su una sovranità limitata di un’Ucraina costretta ad accettare accordi economici squilibrati con gli Stati Uniti e una limitata garanzia securitaria dell’Ucraina da parte della NATO, appaltata agli europei ma privati di qualsiasi ruolo decisionale. In un mondo in cui i principi o i valori sono relegati a mera retorica, ma valgono soltanto interessi nazionali e privatistici e in cui l’unico principio ordinatore sembra diventare quello della forza, l’Unione ha l’imperativo di riaffermare la propria centralità senza scendere a fragili compromessi. Se l’Ucraina rappresenta il banco di prova della sicurezza continentale, il Medio Oriente incarna la sfida alla credibilità internazionale dell’Unione. Il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese e la immane crisi umanitaria che ne è scaturita hanno restituito all’Europa un compito che non può più eludere: essere un attore capace di coniugare fermezza diplomatica e responsabilità storica.
Eppure, la capacità di incidere resta limitata. L’Unione si è dimostrata un attore subalterno, utile nella fase della ricostruzione e della cooperazione, ma assente nei momenti decisivi del negoziato politico. Il vertice di Sharm el-Sheikh ha messo in mostra il narcisistico protagonismo di Trump, il quale ha imposto un fragile cessate il fuoco, mascherato da pace. La posta in gioco più importante per gli equilibri geopolitici della regione si giocano nella seconda fase del piano di pace. Numerosi sono gli interrogativi, in particolare sul futuro smantellamento di Hamas, che però continua ad avere un controllo pieno del territorio di Gaza e del monopolio della violenza, come dimostrato dalla regolazione dei conti nella Striscia tra le diverse milizie. Inoltre, un ulteriore elemento di instabilità è rappresentato dalle frange oltranziste in Israele, le quali spingono per l’annessione della Cisgiordania. Su questo punto si focalizzano le preoccupazioni delle monarchie del Golfo, il cui ruolo è stato determinante per le tempistiche del cessate il fuoco, le quali temono una riapertura delle ostilità. La stabilità e la pace della ragione potrà essere effettiva e duratura solo con l’esplicito riconoscimento del principio di autodeterminazione del popolo palestinese.
In conclusione, ciò che accomuna i due scenari è la questione della leadership europea. L’Unione Europea non difetta di mezzi, ma di una volontà politica comune. L’arma decisiva, in questo contesto, non è militare né economica, bensì la politica. L’arte del decidere, del parlare con una sola voce, di mostrare una volontà politica comune. Se come scrisse Jean Monnet, nel 1976, “L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni date a queste crisi”, in un’epoca di policrisi, è giunto il momento per l’Unione di reagire e decidere se ripiegarsi passivamente nel ruolo di comparsa oppure affermarsi come un attore attivo della politica internazionale.
Quo vadis Europa? L’Unione Europea alla ricerca di una bussola nel nuovo disordine globale







