“La storia della nostra terra” è la nuova rubrica su questo portale, una serie di articoli a cura dello storico e Avvocato Antonio V. Boccia che ci accompagna in un percorso di scoperta storica della Basilicata. Buona lettura!
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A partire dal settimo secolo molti monaci, che poi saranno detti ‘basiliani’ per la regola seguita, cominciarono a sbarcare sulle coste dell’Italia meridionale, a causa della persecuzione patita da parte dell’imperatore Leone III l’iconoclasta. Essi portarono con loro molte icone sacre, salvandole così dalla distruzione. Se ne rinvengono alcune a Rossano. Irradiatosi dalla Calabria, quindi, il monachesimo raggiunse la Lucania in direzione del Cilento, da un lato; e, dall’altro, non arrivò oltre la valle del Noce, la media val d’Agri e il Raparo.
Altre ondate si susseguirono alle prime, soprattutto tra ottavo e nono secolo, dopo l’arrivo degli arabi in Sicilia. Vennero così eretti dei piccoli rifugi tra Calabria, Lucania e Puglia, ma molti di questi religiosi inizialmente preferirono vivere da eremiti, nelle grotte. Dunque, nella nostra regione giunsero monaci di varia provenienza, ed abbiamo testimonianza agiografica diretta della presenza di San Saba il giovane e di San Nilo (o Niclo) sia nel Merkourion che nel Lavriotikion. E soprattutto di San Luca il siculo.
Fu proprio grazie alla presenza di questi religiosi che si innestò un fenomeno culturale virtuoso di ellenizzazione delle terre del mezzogiorno bizantino, anche se da principio i monaci si erano limitati a praticare l’eremitismo e l’ascesi pura, vivendo nelle grotte. Man mano, però, cominciarono a diventare esicasti e, cioè, a riunirsi in piccole comunità, per celebrare i riti nelle laure, e ad avere contatti diretti con la popolazione del posto.
Poi, con l’imperatore Basileios II il Macedone, nella seconda metà del decimo secolo, la religione, all’interno del Catepanato italiano, venne istituzionalizzata: sorsero pertanto, anche nella neonata regione basilicatese, una serie di monasteri e di abbazie di rito greco-ortodosso, i cosiddetti cenobi (che dipendevano da Costantinopoli) dei quali, purtroppo, resta pochissima traccia monumentale, ma di cui fortunatamente vi è ampia testimonianza archivistica.
Si parla, in questa fase, della creazione di eparchie, ossia di diocesi di rito greco, che comprendevano varie chiese locali: in questo senso possono essere interpretate le zone monastiche dette ‘Theotokon’, ‘Mesochoron’,’Tursikion’, oltre al ’Latinianon‘, unitamente alle altre due di cui si è fatto cenno sopra.
Partendo dall’area meridionale, o sinnica -ossia lungo il limes- dobbiamo citare innanzitutto le abbazie di Lauria, Cersosimo, Carbone, Episcopia (sul versante occidentale), assieme a San Basilio, San Teodoro e Santa Palagina (sul versante Jonico-orientale): esse furono certamente le più antiche, in quanto ricadenti in un’area governata dai bizantini già da molti secoli.
Man mano che l’influenza politica di Costantinopoli cresceva, salendo verso nord e sostituendosi a quella longobarda, proseguì quindi l’istituzionalizzazione e l’ellenizzazione dei territori. Di fatti, come si è visto, il nuovo thema venne creato ampliando l’area sinnica (lucana) e ricongiungendola con parte della langobardia pugliese (materano e vulture) e parte del principato beneventano (il potentino e il cosiddetto romagnano). Ovviamente anche queste terre, divenute bizantine, videro la presenza di monasteri greci.
Tra i vari santi-monaci di cui parlano le agiografie, i più celebri che soggiornarono certamente in Lucania furono, come detto, San Saba il giovane e San Nilo (detto Niclo), oltre che san Macario e san Cristoforo. Tuttavia quello che ha lasciato impressa la memoria più degli altri è Luca di Demenna, un religioso originario di Sicilia che visse per lo più ad Armento, laddove fondò un insolito monastero di monaci guerrieri.
Luca nacque agli inizi del X secolo, secondo alcune fonti nell’anno 918, a Demenna (città oggi scomparsa) da una famiglia nobile. Contrariamente al volere dei genitori Giovanni -un alto militare bizantino- e Tedibia, che volevano per lui una vita laica da sposato, Luca entra nel convento di san Filippo di Agira. Si sposta quindi nei pressi di Reggio Calabria, vivendo per un certo periodo con sant’Elia Speleota. Qui profetizza un’invasione saracena dell’Aspromonte e, per evitarla, egli stesso preferisce spostarsi più a nord, nell’eparchia del Merkourion, posta sul confine con la Lucania, e poi si reca a Noia (l’odierna Noepoli), dove restaura una vecchia chiesa dedicata a san Pietro e vi si stabilisce con i suoi seguaci. Ma, dopo sette anni di permanenza a Noia si sposta ancora, lungo il corso dell’Agri, restaurando il monastero di san Giuliano che, negli anni seguenti, s’ingrandisce.
Apprendiamo dal racconto agiografico della sua vita che, allorquando Ottone invase la regione, Luca e i suoi discepoli si trasferirono ad Armento, dove fondarono un monastero fortificato.
In seguito, durante una terribile invasione saracena (probabilmente quella guidata da Abu l-Qasim Ali) mentre il nemico giunge alle porte del monastero, Luca guida con decisione un contrattacco: i suoi monaci guerrieri a cavallo, armati, si gettano improvvisamente contro i mori, in una vera e propria battaglia che dura molte ore e che viene vinta, anche perché dovette essere molto grande la sorpresa negli arabi
Si tratta di un dettaglio davvero inedito, rispetto alle Vite dei suoi contemporanei, laddove – generalmente- i santi monaci si allontanano di fronte al pericolo degli invasori saraceni, oppure li convertono pacificamente, ovvero li sconfiggono miracolosamente (ma senza il bisogno di dover ricorrere alla violenza). Più pragmaticamente, invece, abbiamo visto che San Luca preferì combattere: d’altronde era figlio di un generale dell’esercito bizantino.
La vita di san Luca -il siciliano che volle farsi basilicatese- resta ovviamente ‘esemplare’: i suoi agiografi medievali raccontano che in tarda età, riappacificatosi con tutti, fu raggiunto da sua sorella Caterina, rimasta vedova, e dai suoi due figli, i quali prenderanno i voti ad Armento. Afflitto negli ultimi tre anni di vita da una grave malattia che lo costringerà a zoppicare, sempre secondo gli agiografi, al santo monaco viene annunciata da un angelo la morte imminente: il santo guerriero si spegne nella sua amata Lucania, all’interno del monastero di Armento, nell’anno 984, assistito da san Saba di Collesano.
Una generale panoramica di archivio, infine, ci consente di menzionare alcuni dei centri lucani in cui erano presenti i maggiori cenobi ortodossi, che troviamo disseminati nella regione a macchia di leopardo; ossia -oltre alle già menzionate abbazie di Carbone, Cersosimo e Lauria, che svettavano tra le altre nella parte confinante con la Calabria- nominiamo i monasteri di Craco, Fardella, Spinoso, Sant’Arcangelo, Uggiano, Montemurro, Abriola, Pietrafesa-Satriano, Campomaggiore, Matera, Calvello, Pignola, Pietragalla, Cirigliano, Grottole, Gorgoglione, Montescaglioso, oltre a quelli di Episcopia, San Chirico al Raparo, Laurenzana, Pescopagano, Marsico, Armento, San Giuliano, Noepoli, Bernalda, San Basilio, San Teodoro, Santa Palagina, ed altri minori.
In pratica la regione si stava lentamente ellenizzando, anche nella parte centro-settentrionale che prima era rimasta in mano ai longobardi: questo fenomeno accadeva non solo nella religione, ma anche nella lingua. Tale processo di ‘contaminazione’ religiosa e culturale ebbe tuttavia termine attorno al 1070, con l’arrivo dei normanni e la conseguente interruzione di ogni rapporto con l’impero.
In seguito, la lingua greca rimase solo dove era radicata, ossia sulla fascia sinnica, mentre il rito ortodosso si andò gradualmente spegnendo, soprattutto per il fortissimo contrasto con la chiesa cattolica romana.
Tuttavia, ancora nel sedicesimo secolo erano presenti delle tracce vive del culto greco-bizantino nei territori della Basilicata meridionale: infatti il vescovo di Policastro, mons. Ferdinando Spinelli, fu costretto ad ingiungere -con un decreto- a tutte le chiese ed ai sacerdoti greci di uniformarsi al rito latino, proibendo la liturgia ortodossa.
Ebbe fine in questo modo l’obbedienza al rito greco -di fatto e di diritto soppressa dal papato di Roma- e, purtroppo, caddero nell’abbandono i tanti monasteri di cui la nostra regione era ricca, con la perdita e la dispersione di molti tesori di arte religiosa.