“La storia della nostra terra” è la nuova rubrica su questo portale, una serie di articoli a cura dello storico e Avvocato Antonio V. Boccia che ci accompagna in un percorso di scoperta storica della Basilicata. Buona lettura!
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I guasti prodotti dagli angioini alla nostra regione e al Mezzogiorno nel suo complesso, durante i duecento anni di dominio, sono difficili da eguagliare sotto ogni profilo. Successivamente a quella dinastia, di origine franco-provenzale, fu il ramo di Napoli degli Aragona -in realtà Trastamara- ad arrivare al governo, nell’anno 1442: questo, infatti, accadde allorquando Alfonso Trastamara d’Aragona riuscì a togliere al ramo cadetto degli Angiò il Regno di Napoli, nella cui capitale stabilì la propria corte, scacciandone i francesi.
C’è da dire che la parentesi aragonese, per le province del regno, non sarà molto migliore della conduzione degli Angiò e, inoltre, che essa creerà i presupposti per l’annessione del regno alla corona spagnola. infatti gli Aragona, con Alfonso I e soprattutto con Ferdinando I, si limiteranno ad accrescere l’importanza e la ricchezza della capitale, Napoli, e cercheranno solo in maniera molto blanda di limitare il potere baronale sui feudi.
Per quanto ci riguarda, a tal proposito, di questo periodo dobbiamo innanzitutto ricordare la rivolta lucana di Miglionico del 1485: perché, proprio dal suo castello (che, da allora in poi, venne chiamato del Mal Consiglio) partirà l’insorgenza baronale filo-francese. Non si tratta affatto di una insorgenza popolare, bensì di una lotta di potere tutta interna agli amministratori regi. Tale rivolta viene fermata dal sovrano aragonese e poi finisce nel sangue. Infatti i baroni ribelli finiranno tutti uccisi: o strangolati a Castel dell’Ovo, oppure chiusi in un sacco ed annegati.
Poco prima, nel 1456, un evento infausto: ossia un forte terremoto che aveva colpito la Basilicata orientale e, in particolare, l’area del Vulture. Ma procediamo con ordine: il regno degli Aragona di Napoli, invero, era cominciato sotto buoni auspici: ma, dall’arrivo dei Trastamara, poco più di sessant’anni durerà ancora l’autonomia del Mezzogiorno, il quale verrà poi inglobato dalla Spagna e, quindi, finirà per essere un ‘vice-reame’, retto da vicerè iberici. La medesima fine, del resto, farà pure il Lombardo-Veneto nel medesimo periodo: sicchè, nel corso del sedicesimo secolo la gran parte della Penisola italiana perde la sua indipendenza, cadendo sotto l’influenza della Spagna (o dell’Austria).
Per quanto riguarda più da vicino la nostra regione, possiamo dire che continuano le trasformazioni, in chiaroscuro: infatti, della ‘fase aragonese’ sono da ricordare in positivo poche cose, tra cui la fondazione della città di Ferrandina, in onore di re Ferrante, costruita ex novo dopo la distruzione di Uggiano, causata da un violento terremoto. Inoltre, dal 1470 in poi, si susseguono gli sbarchi di albanesi di fede cristiana, spinti dall’avanzata turca: essi vengono accolti in Basilicata, al fine di contribuire al ripopolamento dei comuni lucani. Intanto, la Regia Udienza era stata portata a Salerno: per cui, durante il periodo storico in esame, la regione perde, purtroppo, anche la sua autonomia amministrativa. Subito dopo, con l’estinzione del ramo dei Trastamara-Aragona -come già accennato- il reame di Napoli perderà l’indipendenza e, tra il 1503 e il 1504, viene a sua volta inglobato tra i possedimenti spagnoli: proprio allora verrà toccato -cioè tra sedicesimo e diciassettesimo secolo- il punto più disastroso sotto il profilo economico, a causa dell’imposizione di numerose tassazioni e gabelle e, altresì, per l’intensivo sfruttamento del territorio (boschivo in particolare).
Verso la fine del Cinquecento assistiamo alla fine della religiosità greco-ortodossa di stampo bizantino, decretata dal Concilio di Trento: in Basilicata chiudono i battenti gli ultimi monasteri basiliani, sopravvissuti alle varie interferenze del rito latino.
Sono troppo poche le terre messe a coltura, che gli spagnoli chiamavano ‘starcia’; e persino la pastorizia accusa un regresso. Di fatti, non a caso, scoppiano in questo periodo una serie di rivolte, la più famosa delle quali è quella di Potenza. Essa avvenne nel 1647 e prese il nome di ‘rivolta dei socasangue’.
Il clima è oramai divenuto intollerabile e i potentini, esasperati, si accalcano in ‘piazza del sedile’ per dimostrare al governatore regio il loro dissenso: in quel mentre giungeva il ‘procaccia postale’, che purtroppo venne scambiato per il ‘percetto fiscale delle gabelle’, cioè per l’esattore delle tasse. Pertanto il pover’uomo fu preso per strada e linciato a colpi di pietre e calci violenti. Infine, quando già era a terra, dolorante del massacro appena subìto, varie donne potentine lo morsero e gli succhiarono il sangue, mentre il poverino, quasi svenuto e tramortito, si lamentava perché, evidentemente, era ancora vivo. Ma le donne, invece di soccorrerlo, continuarono a seviziarlo e a succhiargli il sangue in maniera spietata (urlando frasi come ‘’prima ce l’hai preso tu, il nostro sangue, e ora te lo succhiamo noi’’)… E così ne bevvero, fino a ucciderlo!
Si tratta di un episodio davvero truculento e non molto conosciuto, ma che rende bene l’idea su quel che accadde realmente nella fase storica che stiamo trattando. Ci troviamo, in effetti, nel tremendo periodo che viene tratteggiato da Alessandro Manzoni, il quale rielaborò un antico manoscritto lucano che gli era stato regalato da Francesco Lomonaco e che parlava per l’appunto dello sfruttamento, perpetrato da parte degli spagnoli, nei vari territori d’Italia. Il Manzoni adatta il suo racconto alla Lombardia, titolandolo ‘Firmo e Lucia’ (che poi diverrà il celebre romanzo ‘Promessi sposi’): ma la vicenda, nella realtà, si è verificata in Basilicata (il cognome Tramaglino, peraltro, ancora oggi è tipico dell’alta Calabria). La storia narrata nel manoscritto e trasposta in Lombardia dal Manzoni, con la terribile peste, effettivamente descrive bene la situazione lucana, per ciò che era sul finire della dominazione spagnola.
Altresì, sotto il profilo prettamente politico, occorre dire che Matera continuò a rimanere distaccata in Terra d’Otranto fino al 1655, quando -nell’ambito di un riordino strutturale- fa ritorno in Basilicata, per divenire sede dell’Uditorato di Basilicata e, dunque, per conferire nuovamente autonomia alla nostra regione, che l’aveva perduta da circa due secoli (come detto, era divenuta ‘dipendente’ dalla città di Salerno).
Ancora: se nel corso del quattordicesimo secolo (cioè sotto il dominio angioino) erano scomparse, tra le altre, delle città importanti come Archistratico, Battafarano, Cuccaro, Guardiola, Iliceto, Murro, Passananti, Pulsandra, Revisco, San Salvatore sul Nuce, Santa Sofia e Vitalba, durante il periodo esaminato in questa sede scompaiono invece altri centri abitati lucani, giacchè disabitati a seguito dell’esosità fiscale, o perché distrutti da eventi naturali e non più ricostruiti. Essi sono: AltoJanni, Andriace, Appio, Arioso, Armaterra, Borea, Castelbellotto, Castrocucco, Castro Gallipoli, Cisterna, Irso, Molinara, Monteserico, Perticara, Prisinace, San Giuliano di Petra, Santa Laura, Santa Trinità, Seluci, Trisaja, Uggiano.
Tale situazione, ovviamente, oltre a cambiare il volto della regione, ne determina un’ulteriore trasformazione geopolitica, la cui disastrosa situazione economica -che ha avuto inizio con il malgoverno angioino e che progressivamente è peggiorata anche con gli spagnoli- perdura e degenera ancor di più. Essa, purtroppo, renderà povera e disagiata la popolazione della Basilicata, la quale in precedenza era stata, invece, una delle province più ricche del Mezzogiorno, almeno fino all’epoca sveva. Infatti, per questo motivo, nasceranno nel periodo in esame -non certo causalmente- le prime forme di banditismo.
Infine, segnaliamo che -attorno alla fine del Seicento- le maggiori città lucane (che si attestano tali anche per il numero della popolazione) sono le seguenti: Matera, Stigliano, Pisticci, Potenza, Melfi, Lauria, Rionero, Avigliano e Venosa.